Milano, 23 febbraio 2019
di Mauro Caproni
Quando, a inizio estate 1983, sugli schermi del Biscione prende il via una delle trasmissioni che faranno la storia della musica catodica in Italia, e cioè Deejay Television, uno dei primi video in heavy rotation è quello di un duo sconosciuto, alle prese con un brano elettropop tanto di classe quanto accattivante per la sua danzabilità. Lo xilofono che introduce il pezzo e che viene ripreso più volte dalle immagini, il cantante con tanto di ciuffo e treccine in primo piano e un ritornello/frase simbolo che si appiccica subito in testa. Con "Change" (che poi in realtà il primo singolo di quel mostro di disco che è "The Hurting", e cioè "Mad World", risale all’anno precedente) i Tears For Fears entrano ufficialmente nelle case all’ora di pranzo, e ancora di più nel quotidiano di ognuno di noi giovani cresciuti a pane e pop elettronico. E chissà quanti, tra i dodicimila che hanno affollato il Forum di Assago per il Rule The World Tour, hanno iniziato la loro love story con la band inglese proprio in quella circostanza.
Un gruppo per certi versi indecifrabile, di lotta e di governo si potrebbe dire, di culto e allo stesso tempo prepotentemente mainstream, un esordio fulminante in ambito electro-wave per poi riposizionarsi in territori più classici, in alcuni episodi quasi beatlesiani. Ma sono quei 5/6 brani che saranno consegnati alla storia della pop music a fare la differenza, gli stessi per cui frotte di cinquantenni si sono riversati in massa al concerto meneghino.
Mancavano da una vita qui da noi, almeno nella formazione a due (il solo Orzabal, titolare del marchio, fece una capatina a metà anni 90 ma non era la stessa cosa), cioè dai tempi di "The Seeds Of Love", lavoro intriso di un’anima black & soul che faceva a cazzotti con quanto pubblicato in precedenza, epperò con una title track che con le sue marcette e un incedere irresistibile, dato dai continui cambi melodici, avrebbe regalato loro una gloria imperitura. E, naturalmente, provocato scazzi e incomprensioni tra le parti. E’ notorio infatti che i due non si siano mai presi particolarmente (modello fratelli Gallagher, per intenderci) e che finirono per rompere del tutto un paio d’anni dopo quel disco, passando almeno un decennio a farsi una stupida guerra a colpi di carte bollate e tribunali.
Si diceva, Forum esaurito gia da tempo immemore e concerto posticipato di quasi un anno, a causa di non meglio precisati problemi personali di Orzabal. Poco male, se non che a causa del rinvio ci siamo persi la Alison “Alf” Moyet come special guest, sostituita per questa leg del 2019 da tale Justin Jesso che ovviamente non è la stessa cosa.
Un sold-out che non fa che confermare l’assoluta incapacità di chi scrive di prevedere e comprendere le dinamiche relative alle presenze nei concerti, perché tutto si poteva prevedere per una band che di fatto non pubblica un disco di successo dal 1989 e da una quindicina d'anni gira per il globo portando avanti lo stesso identico best of tour, tranne appunto un tutto esaurito in prevendita in un'arena così grande. Buon per l’organizzatore che ne ha intuito il business e pure indovinato, dura ammetterlo ma è così, la mossa di sostituire il parterre in piedi con una più comoda platea gold tutti seduti, vista l’età media piuttosto alta dei partecipanti.
E il concerto? E’ stato quello che esattamente ci si poteva aspettare da un combo ormai da tempo ripiegato su se stesso, che però dal vivo fa sempre la sua bella figura. Una festa revival di cui si sapeva già tutto da tempo: una quindicina di brani crema della crema e una cover, senza alcun recupero della produzione meno conosciuta - e sappiamo bene quante perle ci siano disseminate in una discografia comunque non particolarmente ampia - una durata standard sotto l’ora e mezza e prezzi parecchio alti. Il minimo sindacale, insomma.
Abbiamo notato con piacere che Orzabal ha ancora una voce eccellente, potente ed espressiva, non indebolita dagli anni, seppure tra un brano e l’altro nell’intento di fare (un po' troppo) il brillante con frasi masticate in un italiano maccheronico, modello Google translate, si sia reso parecchio caricaturale.
Peccato che ormai si sia totalmente "yorkizzato": nell’aspetto, capelli ormai grigi raccolti in uno chignon e barba bianca, e pure nell'ormai stantio omaggio di "Creep", che poi anche basta perché è da anni che la ripropone (male) imperterrito in ogni concerto. Con l’aggravante, senza nemmeno attenuanti generiche, che per farle spazio si sacrificano gioiellini tipo "The Way You Are", "The Working Hour", "Watch Me Bleed" e "Tears Roll Down", che poi sono solo i primi nomi che mi vengono in mente.
Molto più rigoroso e in pieno british style il sodale Smith, sempre col suo basso a tracolla, serissimo nell’introdurre i brani e poi la band, ed efficace nei cori e nei controcanti, nonché nei brani di sua competenza.
Band che suona a memoria, un batterista perfetto nel dettare il ritmo senza alcuna sbavatura, una vocalist che non fa rimpiangere Oleta Adams nelle sue collaborazioni con il gruppo, suoni e arrangiamenti attuali, con un'acustica di sala perfetta. Tutto fila liscio, a partire dall’iniziale "Everybody Wants To Rule The World", e anzi sembra che i Tears For Fears in modo assai autoironico ci tengano a rimarcare l’enorme spazio temporale intercorso tra l’apice artistico che fu e l’appena dignitoso presente, scegliendo come intro una versione recente, scarna e minimale, del brano di apertura, ad opera di Lorde.
E’ un susseguirsi di esecuzioni impeccabili con i brani che filano via veloci e una sensazione non proprio gradevole che sul palco non vedano l’ora di finire, senza badare troppo all'intensità della performance e dispensando così brividi col contagocce.
Alla fine, è "The Hurting" che la fa da padrone con ben cinque brani in scaletta. Scelta sorprendente, spiegata in varie interviste da Orzabal stesso, in quanto nelle varie piattaforme streaming è il disco più ascoltato tra i giovani. Ed è proprio il trittico "Change-Mad World-Memories Fade", proposte una di seguito all'altra, il punto più alto della serata. Brani già di per sé totali, riproposti con arrangiamenti mirati a svecchiarli e di devastante impatto emotivo, sia mai che i più giovani scoprano che "Mad World" non è una cover del brano di Gary Jules della colonna sonora di "Donnie Darko".
Certo, pathos e tensione – non dimentichiamo che l'esordio è un disco quasi autobiografico, l’istantanea di un’infanzia oltremodo sofferta e complicata, quasi terrificante, come si evince dai testi - sono edulcorati e sacrificati sull'altare della nostalgia e dei ricordi. Le teorie di Janov e l’urlo primordiale sono ormai punti lontanissimi persi nel tempo, ma pare che l’unica cosa davvero importante stasera sia presenziare a quello che, comunque la si pensi, resta un evento da non perdere.
E non si può non chiudere con "Shout", scritta luminosa enorme sopra lo stage a rimarcare, semmai fosse necessario, il ruolo storico del brano quale tormentone identificativo degli anni 80. Ma qui si poteva e doveva osare di più, arrivare a un crescendo totale e deflagrare in un’orgia di suoni e ritmi percussivi, perché il brano si presta benissimo a un epico finale. Invece quello che ne viene fuori è una esecuzione abbastanza classica e rassicurante, che si accontenta di essere e non vuole stupire, che poi è la chiave di lettura di tutta la serata.
In un attimo si accendono le luci, la band è già fuggita di corsa nel backstage e non si capisce se alla fine, calata l'adrenalina post-concerto, quello che rimane sia godimento reale o un retrogusto un po' amaro che questo genere di celebrazioni spesso ti lascia impresso.
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Padova, 24 febbraio 2019
di Michele Bordi
Stavolta ce l’hanno fatta, sono davvero tornati. I Tears For Fears, dopo il rinvio del tour dell’anno scorso, riempiono finalmente la Kioene Arena di Padova, il giorno dopo la data di Milano.
Il pubblico presente riflette chiaramente il tempo passato: qualche giovane non manca, ma sono i signori di mezza età a farla da padroni, nelle loro figure smilze in giacca e scarpe eleganti che di lì a poco avrebbero perso la loro compostezza sotto i duri colpi dei ricordi. Perché il duo inglese che suona stasera è da un po’ che non si fa vedere da queste parti; perché “The Hurting” e compagnia bella restano icone intramontabili, tra l’altro invecchiate benissimo; perché le due primedonne di Bath danno l’impressione di avere sempre il bisticcio dietro l’angolo (“chissà che non ci ricapiti più di vederli!”, qualcuno penserà ogni volta).
Purtroppo la crudeltà del tempo che passa non è un dazio pagato solo dal pubblico. Sin dalle prime battute del concerto, iniziato alle 21 in punto, prendiamo atto con dispiacere della serataccia di Smith, in grave affanno per tutta la prima metà del breve show. Quando non sono addirittura le stecche clamorose a intaccare la bellezza di capolavori come “Pale Shelter” o “Change”, le corde vocali di Curt paiono a larghi tratti rincorrere letteralmente il ritmo degli altri, come un ex-atleta che soffre i suoi 57 anni, a dispetto della sua esperienza che non sembra riuscire a compensare il divario.
Per fortuna, quando tutto sembrava andare per il peggio, un moto di orgoglio (o forse uno spirito benigno) rimette in sella il fantino azzoppato e forte del più decoroso stato di forma del buon Orzabal ci consegna intatto uno degli highlight della serata: “Mad World”.
Una nota di merito va a Doug Petty, le cui tastiere avvolgono le tribune dei Kioene con grande intensità - anche per il volume al limite del criminale emesso dal service - ma tutto il resto della band a supporto sembra in ottima forma, trainata da Orzabal che sembra voler comandare tutti chitarra in spalla.
Uno spettacolo piuttosto breve - un’ora e mezza presa con il cronometro - che se non altro regala più musica possibile perdendosi in poche pause: giusto il siparietto di Roland che si cimenta divertito con l’italiano, mentre Smith preferisce rimanere fedele allo stereotipo della fredda Albione. Prima e dopo questa simbolica contrapposizione, una scaletta farcita di grandi classici, omaggiando per il minimo sindacale l’ultimo dimenticabile lavoro con “Secret World” ed “Elemental” con “Break It Down Again”. Tutto il resto è un fiero omaggio ai tre lavori storici che segnarono l’evoluzione della band nonché il loro successo mondiale: dall’opener killer “Everybody Wants To Rule The World” a “Head Over Heels”, dalla potenza live di “Sowing The Seeds Of Love” a “Woman In Chains”, affidata alla voce di Carina Round (presenza fondamentale per rimpolpare i cori ormai esili del duo di Bath). Tutto questo spezzato da una dignitosa quanto non imprescindibile cover di “Creep”, fino alla chiusura con l’immancabile “Shout”. Il grande classico finale è in realtà eseguito piuttosto freddamente e - si conceda l'impressione negativa - frettolosamente, risultando un'esecuzione poco sentita e quasi svolta a mero compitino. Di certo l'analisi non sarà condivisa dai molti cinquantenni di cui sopra che, pazzi di gioia, liberano gli ultimi freni inibitori e si scatenano sotto palco e sulle transenne.
Una serata all’insegna della nostalgia, vista da diverse prospettive: chi è tornato ragazzo, dimenandosi come un tempo sulle ritmiche synth-pop del duo di Bath; chi avrà inevitabilmente rimpianto i tempi in cui i due artisti erano ben più integri e la loro arte più urgente.
Siamo tuttavia pronti a scommettere sull’inevitabile pienone della prossima, eventuale, eventualissima, comparsata sul suolo italico.
(Contributi fotografici su cortesia di Natascia Torres/Zed Live)