
“Un grazie genuino, è passato un po' di tempo, quindi…”. I These New Puritans non danno per scontata la presenza del pubblico di questa sera al Santeria Toscana: nell'arco di cinque anni avremmo potuto prendere altre strade, cambiare gusto e inseguire nuovi hype. Invece siamo tornati ad accogliere un fenomeno art-rock che nel 2019 rivive nelle morbose ambientazioni di “Inside The Rose”.
Umiltà nel riconoscere di essere stati a lungo chiusi in studio, lontano dai riflettori e dal chiacchiericcio mediatico delle webzine; ma anche assoluta integrità e coerenza, poiché non si sono concessi altre strade e hanno elaborato il loro quarto album senza accelerare i tempi, lasciandolo dischiudere come un'elegante composizione floreale.
Una gradevole apertura di serata da parte dell’emergente italiana Hån, figlia del synth-pop adolescenziale delle Let’s Eat Grandma e del cantato melodrammatico di Elena Tonra dei Daughter: formula collaudata e senza sorprese che, in assenza del batterista, risulta un po' troppo artificiosa nelle basi ritmiche e in generale nel preponderante comparto elettronico.
A ingannare l’attesa del live principale viene diffusa una playlist piuttosto ricercata – come è lecito aspettarsi dai fratelli Barnett – che tra gli altri include “Clipper” degli Autechre, “Policy Of Truth” dei Depeche Mode e un lento di Michael Nyman (il tema d'amore de “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante”). Le note del minimalista inglese si disperdono nel bordone atmosferico che anticipa l’ingresso della band: un incipit che nell’album rappresenta il pre-finale e che qui, complice l’ossessiva progressione accelerata di synth, diviene elemento funzionale a una sorta di ipnosi preparatoria.
“A-R-P” mi coglie di sorpresa, come apertura: è tra i brani che mi sono rimasti più oscuri, un inno al carattere illusorio della musica che lo stesso quartetto ricrea ora di fronte a noi; un’allucinazione ad occhi aperti che (adesso lo capisco) racchiude alla perfezione il mood predominante di “Inside The Rose”. Si ritorna poi al principio, agli “Infinity Vibraphones” reichiani che aprono la strada ai riff marziali della title track e di “Into The Fire”. Il rosso infuocato dei faretti trafigge lo spazio e rimarca i pervasivi sentori lynchiani – ispirazione confermata da una recente performance della band a Manchester, su musiche proprie come del leggendario Badalamenti.
Ma i brani più recenti offrono anche lo slancio ideale alla reintroduzione della furia percussiva dispiegata in “Hidden”: inutile negare che “Three Thousand” e “We Want War” hanno segnato l’apice di esaltazione dei TNP e degli astanti, travolti da un impeto che se su disco poteva risultare eccessivo e finanche tronfio, dal vivo riesce a evocare un’energia primordiale grazie alla poderosa sezione ritmica, sia acustica che elettronica.
Ne esce inevitabilmente penalizzato il più riflessivo e orchestrale “Field Of Reeds”, del quale tuttavia sopravvive una versione riveduta di “Organ Eternal”, accentuata nelle linee di batteria e integrata con una corposa chitarra basso suonata dal frontman Jack Barnett. Un’altra stoccata di esagitazione post-industrial con “Attack Music” e i nostri si avviano a concludere la scaletta con una reimmersione nel cuore onirico dell’ultimo album: “Where The Trees Are On Fire” e l’epilogo “Six” sono pregne di sublime e inafferrabile malinconia – o, con pari indole decadentista, spleen – e la chiusura ufficiale del concerto non poteva essere che questa.
Rimangono il tempo e la voglia di un onesto encore, e assieme alla tralasciata “Beyond Black Suns”, a sorpresa, riemerge un estratto da quell’esordio che si credeva ormai quasi rinnegato dai Barnett: “En Papier” è il colpo di coda “punkettaro” che ci ricorda ancora una volta quanto i TNP possano essere al contempo sofisticati e trascinanti, indubbiamente molto al di sopra dell’ampia schiera alt-rock e ai vertici assoluti dell’odierno art-rock.