Al Morlacchi è una sera d'inverno da teatro gremito, un teatro tutt'altro che sconosciuto a Vinicio Capossela, uno che l’Umbria la conosce bene. A dispetto dei Santi, dell’omaggio a Francesco d’Assisi, dei sussulti rurali e medievali, lo spettacolo non è comunque pensato per il posto in cui va in scena ed è tutto fuorché l’operazione di un sarto abile nell’arte del ritaglio e della genuflessione. La data perugina del tour di Capossela, infatti, è la trasposizione sul palco di un progetto variegato, "Ballate per Uomini e Bestie", un album che spazia tra mondi diversi, alcuni vicini e alcuni lontani.
Quando al Morlacchi, alle spalle dei sei suonatori, si delineano i contorni ambrati di una giraffa, l’atmosfera si adatta ad un respiro armonioso per poi assecondare il ritmo degli zoccoli di un animale talmente ancestrale da non sembrare vero, soprattutto in un contesto di provincia. La giraffa di Imola che scappa dal circo girovagando fra le case della città occidentale è un mero fatto di cronaca, perfetto per una scorsa veloce sulla bacheca delle notizie. Eppure con Capossela un aneddoto qualunque può diventare poesia con disarmante agilità. Alle immagini moderne fanno spazio le iconografie antiche, poi un dipinto di Millais. Il tutto senza disturbare, senza dare l'impressione di passare da un argomento ad un altro con saltelli spazio-temporali. Più che saltelli, in verità, veri e propri balzi, come quelli sonori che catapultano Capossela dai più tradizionali sentieri folk a quelli inaspettatamente trap (“La peste”, con dedica a Tiziana Cantone).
Dall’apollineo al dionisiaco, da Perfetta Letizia ai Carmina Burana, in un susseguirsi di costumi e colori senza soluzione di continuità. D'altro canto il concerto di Capossela è soprattutto questo, un capovolgersi di luoghi e sensazioni, un incontrarsi di opposti che si ritrovano nello stesso spazio scenico: il contesto rurale e quello urbano, la tecnologia contadina e quella moderna, le superstizioni dell’uomo e la fede più cieca, la terra (“Il testamento del porco”) e l’acqua (“Pryntil”), l’amore (“Ultimo amore”) e la politica (“Il Pumminale”), la celebrità ("Marajà") e il Povero Cristo, ultimo fra gli ultimi, giustificazione e pretesto, distrazione di massa, sabbia sugli occhi di un mondo già miope, capro espiatorio di ogni improcrastinabile sventura.
La vita e la morte si rincorrono in un concerto bicefalo ed irrequieto, che mescola riferimenti alti a citazioni di estrazione popolare, in una vera e propria altalena di emozioni, la sola capace di trasformare 3 ore di esistenza in uno schiocco di dita.
Quando è mezzanotte inoltrata, al poco convinto congedo dei suonatori il pubblico risponde con civili segni di dissenso, come i bambini de “Le Armonie di Werckmeister” che si rifiutano di andare a letto e vanno avanti a fare chiasso. A Vinicio non resta che tornare sul palco e continuare a cantare, ovviamente di amori non corrisposti e di cavalieri erranti, ma anche di persone impossibili da dimenticare e della loro percepibile presenza (toccante la versione di “Ovunque Proteggi” dedicata a Sergio Piazzoli).
Poco prima della fine, come in una soffitta ricolma di polvere e ricordi, Capossela regala a Perugia anche "Il paradiso dei calzini", una delle più malinconiche che il cantautore abbia mai scritto. Lo fa rannicchiato su un pianoforte minuscolo, mentre gli altri musicisti lo circondano imbracciando strumenti-giocattolo.
I saluti finali sono lenti come il passo di una lumaca. Formano una scia per durare qualche istante in più e lasciare qualcosa. Qualcosa che per molti non sarà mai abbastanza.
(foto di Karen Righi)