-Che cosa fa questo Lucio Corsi?
-Emula un po’ il Renato Zero degli anni Settanta
Mentre consumo una rapida cena e un calice di Nebbiolo nella piazzetta centrale di Monforte d’Alba, colgo valutazioni di carattere artistico provenienti dal tavolo alla mia destra.
Guardo il cielo: temporale in vista. Il mio primo live post-lockdown comincia con due premesse discutibili.
Mi distraggo pensando a cosa abbia convinto il direttore artistico del Monfortinjazz (di cui quest’anno si festeggia la 44esima edizione) a inserire il cantautore toscano nel cartellone di una
kermesse che già a partire dal nome punta su ben altre sonorità, e mi rispondo subito ricordando che da queste parti non sono transitati negli anni soltanto
Wayne Shorter, Enrico Rava o
Brad Mehldau, ma anche
Conte,
Fossati,
Guccini,
Capossela,
Bobo Rondelli; insomma, la quota relativa alla canzone italiana di qualità non è mai stata messa in discussione.
Quello che colpisce davvero è che, con buona probabilità, Corsi è il più giovane di tutti.
Mi inerpico su per le ripide stradine che conducono all’Auditorium Horszowsky (una bellissima cavea naturale a semicerchio posta tra l’antica torre campanaria, le mura del castello Scarampi e l’oratorio di Sant’Agostino), supero gli step imposti dalle normative anti-Covid (verifica della temperatura corporea, uso di gel disinfettante per le mani, obbligo di mascherina) e guadagno la mia posizione numerata su una sedia a un metro e mezzo da quelle vicine.
Il colpo d’occhio è, come sempre, stupendo (la prima volta che ero stato qui, avevo scambiato due chiacchiere con il trio funk/jazz/fusion newyorkese Medeski, Martin & Wood, per l’occasione
backing band d’eccezione nel progetto Soulbop di Randy Brecker e Bill Evans, che dopo il concerto mi avevano confidato: "Eravamo venuti nelle Langhe soprattutto per fare il giro dei produttori vinicoli della zona, ma suonare in questo posto ha dato un nuovo valore a tutto").
Fedele alla sua immagine piacevolmente
glam, Lucio si presenta sul palco con un completo nero lucido scollato, maniche scampanate, pantaloni a zampa e scarpe glitterate con zeppa, ma le analogie con Renato Zero si fermano qui. È vero che il giovane di Vetulonia attinge musicalmente da un certo tipo di cantautorato rock anni Settanta (italiano e inglese), ma sarebbe impossibile vedere nella sua fantasiosa poetica gremita di onde, vento, fauna e ragazze trasparenti, un tentativo di emulare quanto proposto da Zero nella prima parte della sua carriera.
Corsi atterra nelle Langhe per la prima volta in vita sua, interrompendo un black-out performativo che durava da febbraio; logico pensare che lui e la band abbiano voglia di fare bene per onorare al meglio l’invito.
Come prevedibile, è il materiale estratto dall’ultimo "
Cosa faremo da grandi?" a occupare la prima mezz’ora del
set. Mentre scorrono "Orologio", "Trieste", "Big buca", è simpaticamente difficile inquadrare il loro autore sul palco: fisicamente minuto, efebico, capelli lisci e lunghi (facile il paragone estetico con
Jacco Gardner), aria da folletto, pose chitarristiche alla Mick Ronson, Corsi fa emergere il talento esecutivo e la compattezza di un artista già maturo, per nulla intimorito da un pubblico la cui età media è decisamente meno verde della sua, strappando applausi più intensi del solito sulla bellissima "Amico vola via".
Sa improvvisare, Lucio.
Nella parte centrale dello show, durante una parentesi solista, la pioggia comincia a scendere proprio all’inizio di "Senza titolo" ("Avevo una ragazza che non era acqua/ non si poteva bere"), esattamente sulla parola "acqua": lui si ferma di proposito e ci scherza su con il pubblico. Declama (senza accompagnamento musicale di sorta) una divertente poesia che ha scritto per esorcizzare le abbuffate natalizie in famiglia ("Natale all’Inferno"), poi passa al pianoforte per la versione italiana di un brano di
Randy Newman che Cocciante ha tradotto sulla colonna sonora di Toy Story 4 ("Hai un amico in me") e chiude la parentesi con un canto popolare toscano ("Maremma amara"), il tutto mentre l’organizzazione del festival dà vita a un buffo ma efficace siparietto per installare sul palco tendoni che riparano i musicisti e la loro attrezzatura.

Ha senso dell’ironia, Lucio.
Dichiara che i suoi artisti italiani preferiti sono Paolo Conte,
Ivan Graziani e
Lucio Dalla, ma subito dopo esegue "
Bufalo Bill" di
De Gregori (nuovamente con la band al completo), seguita da una poderosa pillola strofa/ritornello di "20th Century Boy" dei
T.Rex.
Prova ad argomentare ogni volta il contenuto delle canzoni, ma poi puntualmente si autocensura con tenerezza, perché ha capito che alla poesia non fanno bene troppe spiegazioni.
Ha un
outfit che ricalca modelli divistici, ma è simpatico e sincero nel rapporto con il suo pubblico, anche quando ci impiega due o tre minuti a sistemare "una chitarra che si SCORDA della sua accordatura per il troppo caldo".
C’è ovviamente spazio anche per il repertorio meno recente, con le acclamatissime "La lepre" e "Il lupo", ma spetta alla più vecchia "Altalena Boy" il compito di chiudere lo spettacolo sotto una pioggia che si fa sempre più insistente. Ci raccogliamo sotto i
k-way e gli ombrellini ma non molliamo, chiedendo due bis ("Cosa faremo da grandi?" e "Freccia bianca"), che Corsi esegue tra gli applausi e una
standing ovation.
Alla fine, è l’organizzatore in persona a prendere il microfono per raccontare la soddisfazione di aver chiamato un giovane così talentuoso, sul quale ha deciso di scommettere dopo aver sentito la crescita e la qualità del percorso artistico.
Ed è difficile per me non essere d’accordo.
Se devo giudicare il futuro della canzone italiana da quello che ho visto qui stasera, nella splendida cornice all’aperto di uno dei paesi più affascinanti delle Langhe, devo dire che siamo in buone mani.