
Eccoci qui, allora, rigorosamente distanziati sui seggiolini della Cavea, con l’emozione di rivivere una liturgia musicale collettiva, inserita all'interno del sempre valido Roma Europa Festival. Fa uno strano effetto vedere la conca dell’Auditorium popolarsi a chiazze, a macchia di leopardo, senza l’abituale calore da contatto gomito a gomito del sold-out. Di questi tempi, però, sembra già tantissimo. Così come ci si può accontentare della scarna messa in scena sul palco: un pianoforte Alfonsi in bella evidenza, dietro il quale sederà il sessantasettenne compositore di Neerpelt, e il resto del proscenio solo per la giovane Liesbeth Baelus al violino elettrificato. Toccherà a lei innervare di trame melodiche le ossessive partiture pianistiche di Mertens, al quale rivolgerà sguardi pieni di emozione e deferenza.
“Ma di che nazionalità è?”. “Mi sa olandese, si chiama Wim..”. Dalle retrovie giungono i soliti dialoghi da turisti dell’Auditorium. Ma pazienza, perché il Wim belga invece è già al piano, con una dedica importante da fare: “Al mio amico Ennio Morricone, che qui a Roma ha vissuto tanti anni ed è morto poco tempo fa”. Si alza in piedi e indica il cielo con un dito, scaldando la platea.
Poi, c’è spazio solo per la sua musica, suggestivamente intervallata dal canto dei grilli e da qualche tuono in lontananza.
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È un Mertens molto diverso da quello che si conosce, quello di “The Gaze Of The West”, il disco uscito all’inizio dell’estate. Un disco sofferto, tortuoso, con labirinti melodici celati dietro trame esili e rarefatte. Nel repertorio recente dell’asso belga, il suo formidabile pianismo si abbina a un singolare uso della sua voce con falsetti da controtenore che s’insinuano tra le note, attraverso litanie oniriche prive di significati verbali. Musica e soluzioni cantate si fondono in una nuova dimensione sonora con esiti a volte sorprendenti e vicini quasi al misticismo orientale.
Certo, qui pesa l’assenza dell’orchestra, che donava sempre una magia magniloquente alle sue ossessioni minimaliste. Ma nei duelli tra piano e violino quei “crescendo” si materializzano in una nuova foggia, più intima, ma non meno drammatica ed emozionante.
Mertens è uno di quei compositori “eretici” che non vedono frontiere di mezzo tra pop e Classica, un autore capace di costruire un’opera elettronica usando il suono dei flipper (“For Amusement Only”) e di umanizzare complesse elucubrazioni filosofiche attraverso improvvisi squarci melodici. Ma il suo rigore classico lo conduce anche su sentieri di straordinaria austerità sonora, come ad esempio nei brani di “Un Respiro”, l’album del 2004 in cui si immerge nella “petite musique de chambre”, per usare le sue stesse parole.

Assiepati (con mascherina) sotto la tettoia della Cavea assistiamo così a bocca a aperta all’esecuzione di meraviglie entrate ormai nella storia della musica contemporanea, come “Maximizing The Audience” (1984), il brano composto per “The Power of Theatrical Madness” di Jan Fabre, ma anche la struggente “Iris” – tutta giocata su un febbrile quanto morbido fraseggio di piano inframezzato dai vocalizzi onirici di Mertens – (da “Stratégie de la rupture” del 1994), “Often A Bird” (da “Jardin Clos”, 1996), con la sua magica sequenza di rintocchi a punteggiare una radiosa apertura melodica per archi, qui sintetizzata dal violino angelico della bionda Baelus. Brani che sono stati racchiusi (spesso con nuovi arrangiamenti, ahimè) nel cofanetto del 2019 “Inescapable”, box a tiratura limitata con 10 tracce inedite e 61 tra le composizioni più significative degli ultimi 40 anni, per un totale di 5 ore di musica. Ma è solo una sintesi rispetto a una carriera di straordinaria prolificità, che lo ha portato a incidere 70 album e quasi 700 brani.
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Il finale è tutto per i due superclassici di casa, ripescati dalla storica soundtrack di “The Belly Of An Architect”: una dolcissima “Close Cover”, pennellata al piano con grazia sempiterna ma senza smarrire quel sottile filo d’inquietudine che la pervade, e poi l’immane “Struggle For Pleasure”, manifesto dell’arte romantica e visionaria del compositore fiammingo, nella quale inevitabilmente pesa l’assenza dell’orchestra, nonostante l’impeccabile performance della Baelus ad assecondare l’ipnotica ripetitività di quella progressione postmoderna d’amorosi sensi. Il pubblico, in ogni caso, apprezza, e non poco. È un’ovazione per un Mertens in piena empatia con la sua audience massimizzata, che ringrazia indicando tutti i punti di una Cavea umida e luccicante. Resta solo il rammarico di non aver potuto apprezzare le sue partiture in tutta la loro grandiosità sinfonica. Sarà per un’altra volta. Per ora, ci basta questo piccolo, intimo, rituale collettivo, inzuppato di pioggia e di emozioni.