A pochi minuti da Largo Venue, penso a che strana città sia Roma, dove addobbi di Halloween e Natale convivono nelle medesime vie. Ma tali e altre dinamiche sfumano poco a poco in sottofondo: adesso siamo in fila, in questo mercoledì tranquillo di fine ottobre, per il concerto degli Afghan Whigs. Prima impressione: nonostante la data infrasettimanale, siamo in tanti. Si vocifera addirittura di biglietti ormai in fase di esaurimento. E viste richieste e distribuzione di tappi per le orecchie, si parla pure di volumi belli alti. Entro, e la sala è piena. Con un po' di slalom arrivo a pochi metri dal palco. On stage, con il compito di aprire le danze della tranche europea del “Wish You Were Near Tour” ci ha pensato niente meno che Ed Harcourt. Qualche minuto dopo le ventidue - l’orario indicato come inizio dello show - il roadie della band di Cincinnati esce per aizzare le folle e scaldare l’ambiente. La musica sparata dalle casse s’interrompe e una distorsione di chitarra anticipa l’arrivo di Greg Dulli & C.
Tornati insieme, gli Afghan Whigs hanno composto tre dischi molto belli e - magari ne riparliamo a mente fredda - probabilmente rappresentano la reunion qualitativamente migliore in giro. “How Do You Burn” è forse l'apice di questa "seconda vita", ma grazie a passaggi come “The Lottery”, “Algiers”, “Birds” un po' del mio cuore è sparso per “In Spades” e “Do To The Beast”. E per quanto voglia sempre tenermi un po' di effetto sorpresa, non ho potuto non sbirciare le precedenti scalette del tour, apprezzando la mole dei brani proposti. L’attesa è finita e il pubblico assiepato accoglie con un boato all’arrivo della band sul palco, per un concerto che si aspettava da anni nella Capitale.
Greg Dulli, classe 1965, è uno degli ultimi paladini del rock alternativo. La presenza scenica è più statica, massiccia, il lungo e caratteristico ciuffo nero ora ha lasciato il posto a un taglio più corto grigio-bianco. In studio, tra progetti paralleli e band madre, Dulli ha dimostrato di avere ancora molto da dire e dal vivo la sua voce è ancora qualcosa di clamoroso. Sprigiona una forza e al tempo stesso una fragilità rare. Dopo la performance in studio, anche sul palco Dulli scuote gli animi e i corpi con la passione e la grinta che esplodono da ogni sua nota. Pantaloni e maglietta scura, Gibson Les Paul sempre nera a tracolla, è circondato da una band altrettanto carica: il fidato John Curley al basso, il polistrumentista Rick G. Nelson, Patrick Keeler con t-shirt dei Misfits (che sotto Halloween ci sta ancora di più) alla batteria e Christopher Thorn con immancabile cappello alla chitarra. Tocca proprio al basso killer di Curley aprire le danze con le movenze grevi e occulte del voodoo-blues di “Jyja”. Un brano (insieme a “Take Me There”) che su “How Do You Burn?” ha visto la presenza del compagno di mille viaggi Mark Lanegan. In un mondo perfetto, per un attimo, mi è balenata la scena del cantante dI “The River Rise” che raggiungeva Dulli per cantarla insieme.
Pronti via, “I'll Make You See God”. Costante del live sarà il ritmo: a colpi di “one, two, three”, Dulli non lascia nemmeno il tempo di finire il brano che subito inizia il successivo, fornendo anche al giro romano una più che corposa scaletta, intenta a brillare ovviamente più per qualità che per quantità. Giunto al capolinea quel treno rock che è la canzone appena eseguita, eccoci tornare al 2014 con “Matamoros”. Il disco intento a segnare il ritorno della band sarà rappresentato anche da “Parked Outside” e un altro brano su cui mi soffermerò a dovere tra qualche riga. Dulli è concentrato sulla performance, si lascia andare solo a un gradito “Ciao Roma, come stai?”.
Dopo averci litigato per tutta la prima parte del concerto, Dulli cambia microfono (per poi ricambiarlo): vuole che tutto sia perfetto. Perché? Ora tocca a un inno della formazione dell’Ohio e di tutto il rock: si, “Gentlemen”, indovinato, con annessa esecuzione scatenata. Tra sguardi e gesti durante l'esecuzione dei brani, si percepisce l’affiatamento tra i musicisti, a prescindere dal tempo del loro coinvolgimento nel progetto.
A prescindere dalle diverse fasi della loro carriera e dai brani che un fan può avere più o meno nel cuore, ho apprezzato la scelta di privilegiare il repertorio recente (due pezzi per “Gentlemen”, “Black Love” e “1965”, il resto è tutto post-“Do To The Beast”), senza dimenticare alcuni capisaldi e soprattutto constatare come ogni scelta tra passato e presente si legasse perfettamente e con coerenza. Così altra esecuzione meravigliosa è stata proprio “Algiers”, con quel crescendo del cantante che con la sua chitarra si appoggia spalla a spalla a Curley e Thorn, spesso inseparabili durante lo show.
Poi, mentre quel razzo soul-grunge marchiato Afghan Whigs sfreccia a mille all’ora, Mister Dulli si siede alle tastiere, nella postazione dove Nelson, tra violino, chitarra e tasti, non si è risparmiato. Lo dice lui stesso al pubblico: ora rallentiamo un poco, per poi tornare a correre a breve. Seduto lì, ecco partorire una splendida “Please, Baby, Please”.
A seguito di “Into The Floor”, al culmine di più di un’ora e mezza di intensità rara, arriva una sorpresa sotto forma di cover, la seconda dopo quella eseguita a metà show (“Heaven on Their Minds” di Andrew Lloyd Webber). L’atmosfera si distende sulle note di un lieve arpeggio. Tra incredulità e stupore, Dulli intona “There Is A Light That Never Goes Out” degli Smiths. Ed è con questa esecuzione che la band decide di congedarsi. Il cantante presenta i compagni di battaglia e ammette che è stato un piacere suonare per ogni persona presente, poi… “Arrivederci Roma!”. L'applauso è forte e prolungato, la felicità per aver assistito al grande live di una delle band più importanti della storia del rock alternativo recente, ancora di più.
Jyja
I'll Make You See God
Matamoros
Light as a Feather
Oriole
Toy Automatic
Gentlemen
What Jail Is Like
Parked Outside
Algiers
Catch a Colt
Heaven on Their Minds (Andrew Lloyd Webber cover)
Somethin' Hot
Please, Baby, Please
Demon In Profile
A Line of Shots
John the Baptist
My Enemy
Summer's Kiss
Into the Floor
There Is a Light That Never Goes Out (The Smiths cover)