
Nelle ultime edizioni, da più parti sono giunte accuse rivolte al Rock In Roma, secondo i detrattori reo di essersi convertito a generi musicali “altri”, tradendo il nome che da sempre si è cucito addosso. Ebbene, serate come quella del 7 luglio rendono di nuovo solidi i rapporti fra la rassegna romana e la community del rock “alternativo”, lasciando trasparire l’intenzione di mediare l’esigenza di fare cassa (attraverso l’organizzazione di eventi più “di massa”) con una vocazione che vuol restare impegnata e ancora attenta alle piccole nicchie. In un cartellone denso di appuntamenti mainstream e nazionalpopolari, gli organizzatori hanno quest’anno destinato una serata intera a due stili che con grande difficoltà riescono a trovare spazio nei cartelloni delle rassegne di grandi dimensioni: shoegaze e post-rock.
Tre band con molti punti in comune, che richiamano un pubblico tanto omogeneo come preferenze musicali quanto eterogeneo dal punto di vista anagrafico. Nostalgici reduci degli anni Novanta e giovanissimi appassionati di suoni basati su diluvi di chitarre si ritrovano per una sorta di “festival nel festival”, nel quale ad aprire i giochi vengono chiamati gli eroi nazionali nel nu-gaze, che in questo caso fanno giustamente gli onori di casa, i romani Klimt 1918, da sempre guidati da Marco Soellner. Li ascolti e pensi quale possa essere stato quel dannato cortocircuito che ha impedito loro di diventare una band per platee ben più grandi. Penalizzati dall’orario (iniziano a suonare poco dopo le 20) i Klimt 1918 dimostrano – a chi fra i presenti non li conosce - di avere in carniere canzoni dall’immenso potenziale, rimaste purtroppo patrimonio di pochi intimi. Sezione ritmica assassina, due chitarre che si intrecciano come in paradiso e un set di sei canzoni che lasciano a bocca aperta, ancor più imponenti nella trasposizione live. Fossero nati oltre Manica, sarebbero adorati in tutto il mondo.
Subito dopo è il momento dei Nothing, una delle formazioni di riferimento dell’ondata nu-gaze che ha caratterizzato gli anni Dieci del nuovo millennio. Si presentano con l’ennesima novità in line-up: al basso c’è la new entry Christina Michelle, che si affianca al batterista Kyle Kimball (una forza della natura, al secondo pezzo manda in frantumi la cassa e il concerto deve fermarsi per una decina di minuti) e alle chitarre di Doyle Martin e del leader Dominic Palermo.
Rispetto ad altre esibizioni viste in passato, il quartetto di Philadelphia conferma di aver finalmente acquisito un maggior controllo del suono che è in grado di sprigionare, cosa che agli esordi rappresentava il più grosso problema nelle uscite live. Fra imponenti muri di suono e credibili derive grunge, i Nothing sono ormai una garanzia, un punto di riferimento per tutti gli shoegazer di nuova generazione.
I God Is An Astronaut rivestono il ruolo di attrazione principale della serata, con loro il sound si sporge verso sentieri post-rock, ma un post-rock più ritmato, a tratti persino ballabile, rispetto a quello dei ben più noti Mogwai. Condotta con mani salde dai fratelli Kinsella, puntando tutto sui diabolici incroci fra le due chitarre, la band affianca alcuni estratti dal più recente lavoro, “Ghost Tapes 10”, con un’efficace selezione dai loro dischi più acclamati. Unendo tecnica e passione, danno vita a un set vivace e muscolare, intervallando spunti ai confini con il metal a momenti più “ambient”. Un saliscendi dagli elevati contenuti emozionali, che trova il vero protagonista in Torsten Kinsella, sempre pronto ad alternarsi fra solidissime chitarre iper-effettate e tastiere, contribuendo in maniera determinante alle architetture cangianti del suono dei God Is An Astronaut, sempre in bilico fra rabbia e dolcezza.