Il viaggio in auto, un centinaio di chilometri. Una passeggiata nel centro della città prima di arrivare al club, ovviamente in netto anticipo. L’attesa, fuori dal locale, in fila con un centinaio di ragazze e ragazzi arrivati - lo riconosco dagli accenti - da diverse parti d’Italia. E poi le chiacchiere nel buio del locale, aspettando che gli artisti salgano sul palco. Fuor di retorica, un rituale che negli ultimi due anni avevamo dovuto mettere in un cassetto, in attesa di tempi migliori: la serata di giovedì 19 maggio è servita a ricordarci anche questo, oltre a tutte le ragioni per cui il Bronson di Ravenna - che a questo giro ci ha regalato i notevolissimi Messa - resta una delle realtà più vitali del nostro paese, le orecchie sempre ben tese al qui e ora della musica sotterranea più significativa.
In apertura, i San Leo di Marco Migani (batteria) e Marco Tabellini (chitarre e un intero desk di effetti): per me, che non li avevo mai visti, una folgorazione. Quaranta minuti di esibizione e un solo brano: un funambolico, estenuante esercizio percussivo in cui, uno via l’altro, si susseguono pattern ritmici circolari sostenuti da una cassa dritta, implacabile. La lezione di Jaki Liebezeit è palese, speziata qui da un’idea di psichedelia tribale e rumorista che sarebbe piaciuta pure a Grant Hart e agli Husker Du: come questo duo riminese attivo da una decina di anni, anche “Zen Arcade” trovava ispirazione nei Sixties più freak. Non c’è definizione, per questa musica che esige dal corpo ogni stilla di energia prima di trascenderlo: forse proprio “Mantracore”, titolo del loro quarto album, è l’unica possibile.
Era quasi scontato che l’attesa per il live dei Messa fosse alle stelle, fin dal rinvio di una data ravennate prevista originariamente per aprile. Del resto, il loro “Close”, così ben recensito sulle nostre pagine, suona ancora come una delle migliori uscite di un anno non parco di soddisfazioni. Le sue dieci tracce parlano una lingua di lentezze variamente metalliche - le distorsioni titaniche degli Sleep, le accordature precipitate nel sottosuolo dei Kyuss, l'approccio melodico drammatico del doom - che si concede di rado sventagliate thrash/black. Eppure questi riferimenti, così canonici per una band avvolta in un’iconografia da Nord Europa in bianco e nero, sono problematizzati da un'aura di psichedelia oscura che trova le proprie origini nella fine degli anni Ottanta e in gruppi come i Red Temple Spirits. Poi, del tutto inattesi, ecco inserti jazz soffiati da un vento desertico; e la voce, poderosa, si mostra capace di fragilità quasi Beth Gibbons. È sempre notte, in “Close”, ma non quella che ci si aspetta da una band come i Messa.
Tolto dall’immaginario così ben definito dell’album, privato della pulizia e dell’alta fedeltà di una produzione di studio e calato nel contesto sudato e a colori di un club, il quartetto padovano si conferma un’eccellenza assoluta. Non che il loro set sia una semplice riproposizione di quanto di ottimo si ascolti nei dischi: nel live emerge ancora di più lo straordinario lavoro di Alberto alle chitarre, prive di frequenze alte. Tutto è ribassato, pesantissimo come da tradizione stoner - il basso distorto di Marco è la spina dorsale di un leviatano - ma il sound è reso peculiare e stratificato dall’uso frequente di 12-corde e modelli di chitarra non convenzionali per il genere: una Danelectro affianca una Diavoletto e un’altra Gibson a doppio manico, un clash personalissimo che ha a che fare tanto con il metallo pesante quanto con psych, jazz e blues; e se il gusto è subito evidente, la tecnica - mai ostentata, anche nei momenti più tradizionalmente hard - emerge in alcuni assolo che lasciano a bocca aperta (di un’agilità addirittura stupefacente, quello di “Suspended”).
Ma non è la precisione millimetrica, il vero punto di forza dei Messa: per brevi tratti, la meravigliosa voce di Sara affoga nel bitume dei bassi; la batteria di Rocco, solida e funzionale, sembra rimuginare un istante di troppo sul primo blast beat. Eppure la forza evocativa dei pezzi proposti rimane elettrica ed eccitante e, anzi, risulta perfino accentuata dalla fisicità imperfetta e impetuosa delle esecuzioni: al centro della scena, Sara - performer magnetica - sembra catalizzare le energie della band per rifrangerle poi sul pubblico, gli occhi rovesciati all’indietro o spalancati in una terra di mezzo tra terrore e meraviglia, dominio e sottomissione.
Otto pezzi in tutto, per un’ora che pesca a piene mani da “Close” - menzione d’onore per la doppietta d’apertura “If You Want Her To Be Taken”/ “Dark Horse”, alfa e omega dell’universo sonoro dei Messa - concedendosi poi uno sguardo al passato recente di “Feast For Water”. E se la qualità di pezzi come “Leah” o “She Knows” è indiscutibile, la crescita del gruppo a livello compositivo lo è almeno altrettanto.
La conclusione, una tiratissima versione del singolo “Rubedo”, congeda un pubblico entusiasta, che tributa il giusto omaggio di applausi alla band prima di radunarsi intorno al merch: dove, apprendo, la prima tiratura del vinile di “Close” ha appena venduto l’ultima copia. Un successo più che meritato: in questo preciso momento, per i Messa, il cielo sembra l’unico limite.