25/10/2023

Algiers

Monk, Roma


Potenti, impegnati e coinvolgenti: gli Algiers si confermano una delle realtà più interessanti nella dimensione live. Il gruppo di Atlanta si presenta sul palco del Monk di Roma in occasione del tour di “Shook”. Non c’è Zach De La Rocha ad affiancare il cantante Franklin James Fisher nella iniziale “Irreversible Damage”, ma ci pensa Ryan Mahan a supportarlo nei versi da cantare alla velocità della luce. Per tutto il concerto i due curano le relazioni con il pubblico in maniera diametralmente opposta. Il frontman mantiene uno stile calmo e compassato assumendo praticamente sempre le stesse pose. Spesso accovacciato per curare le distorsioni e la parte elettronica, si alza solo per bere qualcosa o per cantare con la testa inclinata e entrambe le mani che afferrano l’asta del microfono. Al contrario, il bassista è una pedina impazzita. Quando non è troppo impegnato a suonare il basso, la tastiera o i synth, si dimena come un forsennato per tutto il palco, aizzando la folla, cimentandosi in improbabili balli free-style o fingendosi uno zombie assetato di sangue per sbranare il povero batterista.

algiers_220.Lee Tesche e Matt Tong si occupano invece della gestione dei tempi. Tocca al chitarrista Tesche dare inizio allo spettacolo: armato di walkie talkie, finge di cercare la frequenza giusta e si ferma soddisfatto quando trova un segnale proveniente dagli Stati Uniti. È in un universo distopico a stelle e strisce che ci troviamo infatti subito proiettati. Le immagini sullo schermo mostrano il volto di Fred Hampton, attivista dei Black Panthers. I ritmi incendiari di “Walk Like A Panther” scaldano il pubblico con Mahan che scende quasi giù fino alla platea. La chiamata alla lotta e alla resistenza di “Cry Of The Martyrs” ci ricorda invece quanta strada c’è ancora da fare per la conquista dei diritti civili (in particolare per gli afro-americani). Entrambi i brani sono estratti dal loro secondo album “The Underside of Power”, che effettivamente trova molto spazio durante una serata in cui vengono proposte anche la title track e l’immancabile “Death March” in conclusione.
Naturalmente una buona metà del concerto è riservata al loro ultimo lavoro. Essendovi al suo interno frequenti collaborazioni con musicisti provenienti da ambiti lontani dal loro punk-rock, la band utilizza sovente sample registrati quando deve suonare le sezioni pensate per altri artisti. In “Bite Back”, ad esempio, il video sullo sfondo mostra Billy Woods che esegue le parti rap. Cori gospel e voci black accompagnano invece la band in “Cold World” e in “I Can’t Stand It!”.

Per tutto lo spettacolo si ha la sensazione di essere immersi in un’altra dimensione, complice la scenografia che ha un ruolo tutt’altro che meramente coreografico. Oltre a chiarire e sviluppare il pensiero della band, funge quasi da elemento aggiuntivo del gruppo anche nei momenti più rilassati, dove Mahan e Tesche si rendono protagonisti intessendo complesse armonie elettriche e tutto intorno a loro luci e immagini psichedeliche colorano il palco.
Quando poi Tong suona la carica e pesta duro sulla batteria, scritte e immagini apocalittiche piombano sulla scena. “Il tempo dell'arte è finito”, recita una scritta a metà dello spettacolo, prima che un esercito di morti viventi irrompa per devastare quel che resta dell’umanità. Il lupo che campeggia nella copertina di “Shook” esce finalmente allo scoperto e si aggira rabbioso in mezzo alla strumentazione elettronica utilizzata durante il concerto. La belva furiosa anti-sistema e anti-capitalista è ancora presente, ma si muove adesso in una foresta ultra-tecnologica nascosta fra deck di sintetizzatori e voci registrate. Se al termine del concerto ci si sente scossi e sballottolati, è perché in quelle fronde ci sentiamo a casa.