I postumi sono leggermente diversi rispetto a quelli successivi agli altri incontri con Bruce Springsteen, iniziati un altro 21 maggio, quello del 1997, al Teatro Verdi di Firenze per il tour di “The Ghost Of Tom Joad” (1995). Al tempo non ero molto pratico di concerti, gli eventi che più si adattavano ai miei 19 anni si muovevano tra Ligabue e Litfiba e, anche se erano sempre pieni, non arrivavano al sold-out come i 1583 posti del Verdi, polverizzati in poche ore. Fu solo grazie a uno dei pazienti del padre di Camilla, compagna di banco, amica e infine, ragazza, che riuscimmo a rimediare due biglietti. Ci ritrovammo così a bocca semiaperta, prima seduti come voleva Bruce e, poi, scuotendo le anche su “Workin’ On The Highway”, sollevati in piedi dal passaggio di un’orda di gente eccitata ma non troppo scomposta che, abbandonando le poltrone, si riversava sotto il palco. Bruce rideva, allargando le gambe in una delle migliori imitazioni di Elvis. "The River" era la nostra canzone, Camilla la conosceva perché la ascoltava il fratello, io invece per colpa del babbo che comprava vinili e leggeva il Mucchio Selvaggio. Ci provavo dal 1992 ad andare a vederlo, ma all’epoca nessuno avrebbe attraversato mezzo paese per portarmi in uno stadio con 60mila scalmanati, anzi molti meno, perché era il tour di “Human Touch” e “Lucky Town” (1992) e non c’era più la E Street Band. Lo leggevo sulla pagina dello spettacolo della Repubblica, studiando il look di Bruce nelle scarse foto che pubblicavano.
Me ne sono reso conto ora che ieri era lo stesso giorno di quella prima volta di 26 anni fa. Nel mezzo ci sono state credo altre 14 volte, non sono tante, lo so, non come quelle di uno springsteeiniano medio. Prima del concerto, Samuel di Madrid, mostrandomi le foto di un Bruce dieci anni più giovane insieme a sua figlia, mi racconta di averlo visto 60, 70 volte, poi, continuando a scorrere tra le immagini di Google, apre quella del front porch di Mary da qualche parte nel New Jersey, con lui seduto nel mezzo, in posa su una sediaccia di legno. Era presente alle prime 2 date del tour a Barcellona, non glielo chiedo ma lo dice ugualmente, ormai siamo amici e me lo legge negli occhi che lo voglio sapere, io non ci sono andato, anche se sarebbe stato più facile, visto che vivo a Valencia. Sono volato a Roma, invece, per incontrarmi con i pochi compagni degli anni dell’università che sono rimasti per sempre amici.
Il concerto inizia, Bruce attacca “My Love Will Not Let You Down”, il suono è potente, leggermente distorto e confuso. Forse siamo troppo vicino al palco? No, siamo più o meno posizionati come le altre volte, è solo che per i primi 15 minuti è sempre così: non capiamo un cazzo perché ce li abbiamo davanti dopo averli ascoltati non tanto come prima, ma sempre più di qualsiasi altro gruppo. Su “Death To My Hometown” è chiaro: non ce la fa, cioè è lì, suona a denti stretti e tutti lo seguono, a parte la sua voce. Do un’occhiata a Little Steven per accertarmi se anche lui se ne sia accorto, ormai sono una cinquantina di anni tra altri e bassi che siede alla sua destra, ma rimane impassibile. Canta quando è il suo momento e affronta gli accordi sulla chitarra senza impegnarsi in nessun ricamo particolare, non è che può storcere la bocca davanti a 60mila persone e tradire il blood brother, rifletto.
Inizia “No Surrender” e devo gridarla tutta alzando le braccia e le dita al cielo, mentre Bruce ha le sue impegnate sui riff, tutto fila liscio e come quando lucidiamo un bicchiere dall’ultimo alone, la E Street torna a splendere, anche grazie alla sezione ritmica e ai rinforzi vocali dei coristi, sul palco ci sono più di 15 musicisti.
Arriva “Ghost” che già dai video avevo visto fonte di difficoltà nel ritornello e così è: entrano un po’ le voci di tutti e alla fine non si nota troppo, non l’ho ascoltata tanto, come tutto l’ultimo disco, ma mi ritrovo qua e là a cantarla con disinvoltura. Con il riff iniziale di “Prove It All Night” tutto cambia, ritorno per un momento al mio secondo anno di Scienze Politiche, sulle gradinate del FilaForum di Assago a Milano nell’aprile del 1999, dove viaggiai per affrontarlo per la mia prima volta con i ragazzi della E Street Band. Il mio amico Riccardo mi scuote con la mano, riatterro al Circo Massimo, ha gli occhi sgranati perché non ci crede che tirino avanti così, senza neanche prendere fiato. Come a Firenze, l’8 giugno del 2003, c'era lui, i miei genitori che obbligai sugli spalti e Camilla che ormai non era più la mia ragazza. Quando Bruce uscì con un improbabile capello alla Johnny Cash, una dodici corde e lo slide al dito, intonando “Born In The Usa”, lei iniziò a piangere, io mi trattenni solo perché non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso: scomponevo l’esecuzione di ogni canzone e la voce era molto meglio che nei dischi.
Entra il riff di “Darkness On The Edge Of Town”, Samuel davanti a me si gira, questa non l’ha fatta a Barcellona, non so se è più contento di sentirla o che Bruce abbia cambiato la scaletta, un motivo fondamentale per ritornare a vederlo nelle prossime settimane in giro per l’Europa, visto che in questo tour, come si lamentano tutti, le setlist rimangono praticamente invariate. Tra le varie ossessioni degli springsteeiniani c’è quella di rincorrerlo in giro tra i palchi del mondo per chiedergli di suonare pezzi poco conosciuti, impossibili da eseguire (come “New York Serenade”, ma alla fine ce l’hanno fatta, proprio a Roma l’11 luglio del 2013 in un ippodromo dalla terra bruciata dal sole), appostarsi fuori dagli hotel o dei ristoranti dove si alimenta (ma ora gira con il suo cuoco personale, mangiare fuori tutti i giorni non fa bene), nelle palestre dove si esercita o più semplicemente incontrarlo per caso nei tornei di ippica a cui partecipa la figlia.
Nella seconda e terza strofa di “Darkness”, Bruce non canta ma parla, di Sonny, di some folks che si sono persi lungo il cammino e forse anche lui qualche volta si è smarrito, ma tornerà su quella collina perché non si può fermare, ci andrà con tutto quello che ha e lì, lo potranno trovare. All’inizio sussurra, poi ringhia e lancia un grido che arriva dritto dal passato. Con “Letter To You” ho l’impressione che tutti i pezzi siano collegati, anche musicalmente e il riffettino sui primi tasti della chitarra rinvia diretto al solo di “Darkness”, anche se c’è poco in comune. “The Promised Land” e “Out In The Street” accumulano punti sul tabellone, le chitarre cigolano l’intro iniziale alla Byrds e la voce di Bruce è salda come l’asta del microfono a cui si appoggia. Entriamo nella fase black del concerto con l’antica e jazzata “Kitty's Back”, la soul e ultima arrivata “Nightshift”, il poco comprensibile ripescaggio gospel da “The Rising” (2001) con “Mary's Place” e sì, tutto il funky e la verbosità degli inizi con “The E Street Shuffle”. I coristi, in particolare quella specie di Stevie Wonder mastodontico con un falsetto perforante (Curtis King Jr.), i percussionisti, i fiati, la E Street Band suonano, svisano, si lasciano andare sul numero di battute dettate dal nostro che, tra stacchi di swing e passaggi jazz, riprende fiato.
Sì, non si nasconde, come non lo fanno le suole bianche di gomma delle sneakers apparse nelle ultime date, al posto dei sicuramente meno comodi stivaletti di pelle nera. È una delle poche immagini che riesco a ricordare del concerto del 18 ottobre del 2002 a Bologna: i 14 mila del Palamalaguti, gli stivali neri con la punta di metallo, una marea di gente molto più nervosa di quella di oggi che ci sbalzava da una parte all’altra, come zattere in un mare in tempesta.
La versione acustica di “Last Man Standing” dall’ultimo “Letter To You” (2020), è preceduta da un’introduzione in cui Bruce parla e racconta la triste genesi della canzone: con la morte del suo amico George Theiss, è l’ultimo uomo rimasto in piedi della sua prima band (The Castiles), in cui militò dai 15 ai 18 anni. Sui megaschermi appaiano i sottotitoli in italiano, ci tiene a farsi capire, come un buon predicatore sa che le sue parole sono la cosa più importante per i suoi seguaci. Glielo abbiamo fatto credere noi durante gli ultimi 40 anni, tanto da aspettarne alcune pontificie sui cataclismi provocati dalla nostra ignoranza; per fortuna non l’abbiamo convinto a tal punto, anzi, mai come questa volta si è scardinato dall’immagine divina che insistiamo nel volergli accollare. È un cliché, dice, ma dobbiamo vivere ogni secondo che ci appartiene, occupandoci di coloro che ci amano, la morte ci aiuta ad avere una più ampia visione del percorso.
Quando Roy, the professor, attacca l’intro di “Backstreets”, credo che più o meno tutti i presenti abbiano gli occhi inondati di lacrime. Da questo momento in poi, potenza, intensità e rock’n’roll si impossesseranno dello stage del Circo Massimo, con una carrellata di 13 pezzi adrenalinici. “Because The Night”, “She's The One”, “Wrecking Ball”, “The Rising” e “Badlands” che volevo gridare dall’inizio, perché tra tutti, “Darkness On The Edge Of Town” (1978) è quello che preferisco.
Senza nessuna uscita e ritorno per i bis, inizia la parte finale dell’evento, con l’armonica di “Thunder Road” riscoppio a piangere, non per l’amico di Bruce morto, ma per i miei che incontro troppo poco e perché sono più di trent’anni che canto di sapere di non essere un eroe e ogni parola di quel testo, che scrivevo non capendoci un granché, sui quaderni delle medie. “Born In The Usa”, “Born To Run”, “Bobby Jean”, “Glory Days”, “Dancing In The Dark”, senza alcuna ragazza sul palco, anche se a San Sebastian, 7 anni fa, il 17 maggio 2016, c’erano montati una decina di personaggi e per poco anche noi… “Tenth Avenue Freeze-Out” con le foto che scorrono di Big Man e Danny Federici e l’acustica “I'll See You In My Dreams”.
È finito, il tipo con gli auricolari rimane un minuto sul palco aspettando. Ci dirigiamo verso l’uscita per recuperare alcuni dei forever friends che non erano stati così svelti nell’acquisto del pit A, mentre altri erano in prima fila a dargli la mano, iniziamo animatamente a parlare del concerto e di quando potremo rivederci, il più presto possibile.