I riti sono una forma di casa. Rendono il tempo abitabile. Mai come quest’anno, i concerti di Bruce Springsteen hanno preso l’aspetto di un rituale sempre più codificato: pochissime differenze tra una serata e l’altra, pochissimo spazio per la sorpresa. Una vera e propria liturgia rock’n’roll (metafora abusata, d’accordo, ma che stavolta suona perfettamente calzante). Proprio per questo, non è semplice retorica accostare la celebrazione officiata dalla E Street Band a un ritorno a casa: un luogo familiare e accogliente, ma anche un luogo di cui si conosce bene ogni angolo.
In fondo, è esattamente quello di cui parla “Ghosts”, il brano di “Letter To You” chiamato a dare il benvenuto ai settantamila adepti radunati per la serata finale del tour europeo, nel Prato della Gerascia dell’Autodromo di Monza: “I’m alive, and I’m comin’ home”. Una casa, la sua gente e i fantasmi del passato: c’è dentro già tutto, in quelle note che rimbalzano contro il bianco delle nuvole estive come la migliore riedizione possibile del classicismo springsteeniano versione 2023. “Let the spirits be my guide”.
Un rito, dicevamo. Già dalla rullata solenne di “No Surrender”, che rinnova ancora una volta il patto di sangue tra Springsteen e il suo pubblico, il percorso è segnato. In difesa delle setlist pressoché immutabili dell’ultimo tour si è schierato senza mezzi termini il chitarrista Nils Lofgren: “Quando fai sempre gli stessi pezzi in concerto, raggiungi un livello di profondità notevole, soprattutto perché inizi a sentire molti dettagli di ciò che fanno gli altri”, ha dichiarato in un’intervista a Rolling Stone. “Inevitabilmente questa familiarità genera un’interazione molto più stretta, un altro livello di intesa musicale”.
In realtà, però, non appena partono i cori di “The Promised Land” o di “Out In The Street”, la sensazione è quella di trovarsi di fronte alla replica di uno show perfettamente rodato, più che a un evento unico e irripetibile. Bruce dispensa sorrisi e strette di mano alla maniera di un magnanimo pontefice (l’età, del resto, è un po’ quella…). E la sua congregazione mostra di conoscere benissimo la parte: ondeggia le braccia su “Bobby Jean”, prolunga i cori di “Badlands”, risponde durante il consueto siparietto di “Glory Days” ribadendo che no, non è ancora ora di andare a dormire… Addirittura, durante l’unico discorso rivolto alla platea (al momento di introdurre “Last Man Standing”), sui maxischermi scorrono i sottotitoli in italiano: Springsteen recita ogni sera esattamente le stesse parole. Per la prima volta, l’improvvisazione sembra bandita dal suo palco.
Il fatto è che sono sempre stati proprio l’interazione con il pubblico e l’ispirazione del momento gli imprevisti capaci di trasformare in un evento ogni concerto del rocker americano. Oggi bisogna fare i conti con la progressiva canonizzazione della “legendary E Street Band”: ci scherza lo stesso Springsteen, nell’ormai immancabile formula di presentazione del gruppo prima di “Tenth Avenue Freeze-Out”…
I classici ci devono essere praticamente tutti, gli arrangiamenti non possono discostarsi troppo dalla storia. Non è un caso che i brani siano per più della metà gli stessi del torrenziale concerto milanese di undici anni fa (la durata no, anche se comunque si arriva a sfiorare la soglia delle tre ore). La leggenda è servita, e anche questo fa parte del rito.
Ma non bisogna perdere di vista il punto essenziale: un concerto di Springsteen è prima di tutto una festa di popolo. Nel Pit A si salta e si suda appena parte l’attacco di “Badlands”, nel Pit C si addenta una salamella come se ci si trovasse a una sagra di paese… In molti arrivano addirittura a spettacolo già iniziato, con tante grazie alla logistica non propriamente agevole della location (per stendere un velo pietoso sulla gestione del deflusso). Eppure, lo spirito (meglio, la fede) non cambia: tutti blood brothers per una notte, dai bambini con le cuffie anti-rumore calcate sulle orecchie fino ai genitori (ma anche ai nonni) che brandiscono il loro bravo cartello con il titolo di qualche canzone che non verrà mai suonata. Tutti affratellati nel ballo liberatorio di “Twist And Shout” (unica richiesta del pubblico accontentata), che poi diventa “La Bamba”, che poi sembra venire direttamente dal palco di San Siro ’85, e che alla fine è il vero inno nazionale degli springsteeniani d’Italia. Il sing-along sarà anche meno coinvolgente rispetto a uno stadio, ma in compenso il suono è molto più nitido. E persino il cambiamento climatico decide di concedere una pausa, dopo le trombe d’aria che hanno devastato la Brianza (il “Let it rain” di “Mary’s Place”, però, stavolta suona un po’ minaccioso…).
La sezione di fiati e i coristi che accompagnano la E Street Band danno il meglio di sé tra le svisate jazzistiche di “Kitty’s Back” e la vivacità in puro stile “Seeger Sessions” di “Johnny 99”, passando per il tributo soul di “Nightshift” dei Commodores (dall’ultima raccolta di cover “Only The Strong Survive”). Il sole si immerge tra gli alberi del parco, le prime ombre avvolgono il cielo e la serata entra nella sua parte più intensa: l’armonica di “The River” prepara gli animi, l’elegia acustica di “Last Man Standing” li fa vibrare con l’aiuto della tromba di Barry Danielian. Poi, le note del pianoforte di “Backstreets” raccolgono tutto quanto e lo aggrovigliano in un lungo, palpitante struggimento. La dedica è a George Theiss dei Castiles (la prima band di Springsteen negli anni dell’adolescenza), la cui scomparsa ha segnato nel profondo gran parte dei brani di “Letter To You”. I ricordi sono più taglienti delle note della chitarra, la mano va sul petto, batte sul cuore: “I’m gonna carry it right here, right here”.
Tocca ancora a Roy Bittan guidare il crescendo emotivo, ed ecco “Because The Night” infiammarsi sulla chitarra di Nils Lofgren. Di corsa a tuffarsi nel climax di “Badlands”, passando per l’energia di “She’s The One” e “Wrecking Ball”. Bruce dà il tempo e subito si riparte con “Born To Run”, via verso la carrellata del greatest hits conclusivo. Per il finale, però, Springsteen resta in scena da solo, imbracciando la chitarra acustica e sistemandosi al collo l’armonica. È “I’ll See You In My Dreams”, l’ultima traccia di “Letter To You”, a fare da commiato. Parla di estati destinate a finire e di amicizie destinate a durare per sempre. “For death is not the end/ And I’ll see you in my dreams”. Bruce la suggella con una promessa: “We’ll be back”. I riti servono proprio a questo, lo sapevamo dall’inizio. A dare un senso al tempo.