08/07/2023

Chemical Brothers

AMA Music Festival, Romano d’Ezzelino (Vicenza)


Su quest’articolo potrei costruire un’epica privata, ma al contrario. I miei anni 90, infatti, non sono stati quelli dei Chemical Brothers e dei Prodigy, né, in generale, quelli dei rave e dell’elettronica. Erano, banalmente, quelli del grunge e dei Litfiba tamarrock. Verso la “musica suonata con le macchine” avevo un pregiudizio adolescenziale che avrei superato solo in età matura, passando attraverso il tecnopop e, in generale, una fascinazione per gli anni 80 più cafoni. Come è quasi sempre capitato nella mia vita, insomma, ho perso il “qui ed ora” e mi sono trovato ad apprezzare musica che era già storia. In ogni caso, all’epoca, avrei rinunciato alle mie prime esperienze con le ragazze, pur di avere vicino a dove sono cresciuto (Romano d’Ezzelino, frazione San Giacomo, hinterland di Bassano del Grappa) un festival come l’AMA, nato ad Asolo con l’esibizione Sir. Oliver Skardy ormai tre lustri fa e arrivato a ospitare il concerto dei Chemical Brothers nel parco di Villa Ca’ Cornaro, dove si è trasferito da quattro anni, per 9.000 paganti entusiasti.

 

Un Festival cresciuto di anno in anno, si diceva: l’organizzazione dell’AMA è sempre più imponente e lo si capisce non solo con la scioltezza con cui è riuscita portare quasi diecimila persona sul parco di quella che è, normalmente, una casa di cura, ma anche dal cartellone della giornata che vedeva, oltre ai fratellini, due nomi comunque importanti come i Motel Connection e i Bloody Beetrotts.
Samuel e soci hanno aperto la serata mentre ancora il sole picchiava e la gente si limitava a ondeggiare alla loro musica che, in qualche modo, è stata tra le colonne sonore degli anni Zero, assieme ai brani dei più noti Subsonica, di cui i Motel Connection erano la versione “da club”, senza schitarrate, ma con lo stesso piglio melodico e contagioso. E, alla fine, forse è stato proprio questo progetto parallelo a invecchiare meglio: musica perfetta per chi voleva già ballare, ma anche per chi si prendeva già qualcosa da bere per evitare le file chilometriche che si sarebbero formate nel prosieguo della serata.
Dopo, è toccato alla squadra di casa: per la gente del posto, Sir Bob Cornelius Rifo è ancora Simone Cogo da San Giuseppe di Cassola e molti (tra cui il sottoscritto) se lo ricordano fare cover degli U2 e dei Police in un gruppetto liceale chiamato Diathema. Questo prima di indossare la maschera di Venom e di inventarsi un mix fumettistico, fracassone, ma assolutamente funzionale, di Prodigy e synthwave a nome Bloody Beetrotts, che ha raggiunto una decina d’anni fa un successo, anche all’estero, assolutamente meritato. Nella sua oretta di set, Rifo ha dimostrato di saper tenere egregiamente il palco, scatenando a dovere il pubblico e facendo sfoggio di un atletismo più da rocker che da dj.

C’è spazio poi per il set, decisamente più soft, anche se di altissimo livello, di James Holroyd, perfetto nel creare un’atmosfera quasi psichedelica e sospesa, in attesa, che Tom Rowlands e Ed Simons salgano sul palco, dietro una consolle che sembra la plancia di comando dell’Enterprise. A quel punto, si accendono tante luci come i fari di un gruppo di camion pronti a investirti. Ed è proprio quella la sensazione, quando parte “Go”.
I Chemical Brothers non saranno più lo stato dell’arte, ma sono stati arte e questo vale per sempre. La loro performance, oggi, è puro mestiere, ma sfido chiunque a lavorare così, producendo un flusso di oltre due ore di musica senza cali di tensione neppure minimi, che faccia ballare entusiasta un pubblico così ampio (sia pure di un’età media facilmente individuabile - per lo più i quarantenni che, da ragazzini, vedevano gli scheletri ballare nel video di “Hey Boy, Hey Girl” su Mtv). Non c’è alcuna sbavatura nel passaggio tra un brano all’altro, e le varie “Do It Again”, “Get Yourself High”, “No Reason” e “Hey Boy Hey Girl” si accompagnano alle incredibili immagini nel maxischermo sopra il palco, ad opera di Adam Smith e Marcus Lyall, di fatto protagoniste della serata al pari della musica.

Se la prima parte del concerto punta soprattutto sui ritmi, circa a metà comincia a prevalere l’aspetto melodico grazie a brani come la kraftwerkiana “Escape Velocity” e “Saturate”, prima della parte finale con i classici “Galvanize”, “Leave Home” e “Block Rockin’ Beats”. E a quel punto le energie del pubblico sono quasi completamente bruciate. Quasi, perché a stendere completamente tutti, ci pensa una versione monstre di “The Private Psychedelic Reel”, che occupa tutto il bis: una cattedrale sonora che si accompagna perfettamente alle immagini di vetrate religiose che si alternano sullo sfondo.
La messa è finita e, alla fine, torno a casa contento di aver assistito a un grande concerto, a due passi da dove abitavo. Sicuramente a sedici anni non me lo sarei certamente goduto così e, quindi, al diavolo i rimpianti!