Come già accaduto in passato, John Grant in questo tour italiano si presenta con una formazione ridotta e una strumentazione essenziale. Con lui sul palco c’è un turnista con il quale si alterna alle tastiere, ai synth e a poche altre macchine analogiche. Su richiesta dell’artista i posti assegnati al pubblico sono tutti a sedere nella sala teatro del Monk.
Ormai Grant ha smussato tutti gli angoli del suo carattere e del modus vivendi dissoluto che, dopo l’epilogo dell’esperienza con gli Czars e vicende di vita personale non proprio semplici (disintossicazione e scoperta della sieropositività), lo portarono a trasferirsi in Islanda in una sorta di autoesilio.
Sul palco entra in scena un gigante buono e sorridente con una gran voglia di interazione con il pubblico, a cui dedica come incipit “TC & Honeybear”, uno dei primi brani scritti da solista, seguito da “Cruise Room”, uno dei più recenti, incluso nel suo ultimo lavoro discografico “Boy From Michigan”.
L’inizio quindi è ammaliante e sussurrato ed è già evidente l’impostazione che John vuol dare a questa sua performance.
In realtà, qualche dubbio su questo ritorno in scena era più che legittimo dopo che la sua produzione aveva registrato una flessione in termini qualitativi e forse anche un calo di ispirazione rattoppata da un non sempre brillante utilizzo di elettronica che ne adombrava le liriche. In questo solco è il terzo brano della serata, attinto dall’omonimo album “Green Tickles, Black Pressure”.
Tuttavia oggi John Grant è un uomo maturo e decisamente più consapevole di se stesso e con una visione meno introspettiva e più sensibile a ciò che lo circonda.
Scrive testi anche impegnati politicamente e socialmente e prende una netta posizione con "Touch & Go”, introducendola con una descrizione di Chelsea Manning e una dedica al suo coraggio.
Come detto, la formazione in duo e l’esigua strumentazione indirizzano la setlist verso i lavori più morbidi e puramente cantautorali di John: gran parte dei brani proviene dal suo capolavoro “Queen Of Denmark” e dal successivo “Pale Green Ghosts”. Il pubblico sembra gradire decisamente questa scelta e su “Outer Space”, “Marz”, “Sigourney Weaver” e “Where Dreams Go To Die” le labbra degli astanti accompagnano sussurrando il baritono di Grant, quasi a volersi connettere emotivamente con lui senza però inficiare il fluttuare della sua voce profonda nella sala.
“Queen Of Denmark” è forse la punta di maggiore enfasi del live, il testo arriva dritto e nel ritornello lo scatto vocale, per tono e imponenza, colpisce come un pugno dopo una carezza, per poi rientrare nella dolcezza suadente fino a quando, alla fine del brano, Grant gira il microfono verso il pubblico per invitarlo a recitare l'ultima frase del pezzo.
Quello di stasera è un John Grant che interagisce molto con il pubblico. Introduce ogni canzone, la sua genesi e il suo significato. Si spinge a elogiare la lingua italiana come quella che ha donato cultura al mondo. In un simpatico intermezzo recita parole e idiomi nostrani che ha imparato in questo suo breve giro nella nostra penisola. Ride e fa smorfie elencando parole come “pavoneggiare”, “borseggiatore” o modi di dire come “chi c’è c’è chi non c’è non c’è” o ancora “piove sempre sul bagnato”. La sua pronuncia tra l’altro è davvero brillante.
Annuncia anche l’uscita per il 2024 di un nuovo album e presenta un brano inedito: “Zeitgeist”. Dopo “Global Warming”, sceglie di chiudere con “Drug”, pezzo dei suoi Czars che quasi sempre ripropone in scena.
Augura la buonanotte ma l’encore è acclamato e Grant regala altre due perle, “Caramel” e “GMF”, rispettivamente da “Queen Of Denmark” e “Pale Green Ghosts”.
Fa inchini ringrazia più volte in italiano e quello che colpisce è il lungo applauso del pubblico, che si alza in piedi come in teatro dopo una splendida esibizione di una prima donna della Scala o di un bambino prodigio. John forse è proprio tutte queste cose insieme, racchiuse in un corpo da gigante buono che, anche se con qualche passo falso discografico, riesce dal vivo ancora a donare dolcezza e bellezza autentica, sogghignando con quelle sue fossette sotto la barba.