02/07/2023

Lana Del Rey

Parco BussolaDomani, Lido di Camaiore (Lucca)


Lana Del Rey è tornata in Italia dopo le date a Milano e Roma del 2018, all’improvviso. È una data di passaggio tra Glastonbury e Hyde Park, quasi fantasma, prima che possano accoglierla palchi più grandi e folle più corpose. Annunciato solo con sei giorni di anticipo, il live della cantautrice newyorkese è in grado di fare un sold-out di 20.000 biglietti venduti, segno della sua popolarità anche da queste parti. Canta in Versilia al Parco BussolaDomani, dove Mina – una delle "nostre" dive – tenne i suoi ultimi concerti, oltre ad artisti di caratura internazionale come Liza Minnelli, James Brown, Joe Cocker e Frank Zappa prima del tramonto del “mito della Versilia”, ricercato anche dai protagonisti de “Il sorpasso” (1962) di Dino Risi. Il festival La Prima Estate fa così il suo colpaccio, chiudendo una seconda edizione con Nas, Bon Iver, Kings of Convenience, Jamiroquai e Alt-J, dopo un’edizione 2022 passata un po’ in sordina con Duran Duran e The National (!).

 

Basterebbe solo il brano con cui Lana Del Rey accoglie e saluta il pubblico al suo spettacolo per capirne il personaggio e la visione oltre le etichette di genere (art-pop, chamber-pop, dream-pop?), che non riescono a definirla in essenza e in apparenza: “Nature Boy”, standard jazz portato al successo da Nat King Cole e interpretato tra i molti da Ella Fitzgerald e Miles Davis, reinterpretato in una nuova veste da David Bowie nel film musical “Moulin Rouge!” (2001) di Baz Luhrmann e immaginato da Susanna Nicchiarelli per l’anima della sua Nico nel film biopic sulla cantautrice e modella tedesca “Nico, 1988” (2017). Per accedere e abbandonare il mondo di Lana ci accompagna una versione strumentale del brano che richiama sia il celebre musical del regista australiano sia gli arrangiamenti delle musiche per 007 composte da John Barry.

Attraversando porte che sembrano specchi Lana dà il via allo spettacolo.
Tra piccole coreografie, cambi d’abito in scena con tanto di preparazione dell’acconciatura (ironico richiamo all’affaire Glastonbury?), immagini che hanno la grana della pellicola e dondolii sull’altalena, la performer ci conduce lungo la sua discografia con una scaletta antologica che ne ripercorre la carriera partendo dal recente “Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd” (Polydor, 2023) e approdando al debutto “Born To Die” (Polydor, 2012), muovendosi da flâneuse attraverso i luoghi iconici dei suoi brani (Old Paul’s, Ramada in Rosemead, Venice, Ocean Blvd, la suburbia e Breantwood Market, Sierra Madre e Hilton Hotel, LA e l’Arcadia) affollati di personaggi (James Dean, Crosby Stills and Nash, John Denver, Norman “fucking” Rockwell). Scorrono “A&W”, “Young And Beautiful”, “Bartender” ma anche “Cherry”, “Pretty When You Cry” e un monologo prima della tripletta “Ride”/“Born To Die”/“Blue Jeans”, accompagnato dalle immagini tratte da molteplici videoclip che ne hanno definito nel tempo l’immagine e che ora scorrono sulla parete come degli home movie.

Languida, romantica, caduca nella sua bellezza e nella sua vulnerabilità, anche vocale come nell’inno sadpopUltraviolence”, Del Rey è una perfetta crooner che avrebbe come spazio prediletto per la sua musica il Blue Note, il Club Silencio o un qualsiasi teatro di Pigalle. Nonostante l’ottima resa sonora, spesso il pubblico sovrasta la sua voce, ma Lana si fa volentieri sorreggere e "cannibalizzare", come quando su richiesta intona a cappella “Salvatore” creando un quadretto da festa a Little Italy.
Lana completa la performance spingendo l’acceleratore emozionale e immaginifico tra vecchi e nuovi classici (“Venice Bitch”, “Diet Mountain Dew”, “Summertime Sadness”, “Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd”) e quella “Video Games” che la portò alla ribalta più di dieci anni fa, a suggellare la sua antologia e un concerto che segna il 2023 (e che ricorderemo a lungo).

Lana Del Rey aka Lizzy Grant è un’icona pop. Che si voglia guardare dal lato della cultura popolare e/o da quello artistico – se ancora dovessimo intenderli come termini dicotomici – la cantautrice newyorkese supera le operazioni ancora di gusto postmoderno alla base della carriera di Madonna (il periodo disco, il periodo blues, il periodo elettronico...) o di Lady Gaga (che, dopo aver affondato nel kitsch e nel camp, decide di farsi “stella nascente” del cinema quando la sua immagine è già fortemente connotata o di creare il suo songbook americano con Tony Bennett). Lana Del Rey è già storia e archetipo della cultura visuale statunitense: “Born to Die, "We’re American-Made". Dentro il suo immaginario ci sono la cantante del Roadhouse di “Twin Peaks”, Laura Palmer e Chris Isaak, le donne di Cindy Sherman, Marilyn Monroe e Jackie Kennedy (come nel videoclip di “National Anthem”), bar notturni pasteggiando vino e Bacardi, tavole calde col mandolino e diner ricolmi di Cherry Coke, hamburger, “ice-cream” e “ice queen”. E la generazione "nuovissima" la ama – quante intorno a me, anche adolescenti, avevano addosso almeno un segno che richiamava i look di Lana – così come le generazioni precedenti, che riconoscono in lei quello che già conoscono e sanno apprezzare.

They built me up three-hundred feet tall just to tear me down
So I’m leavin’ with nothing but laughter, and this town
Arcadia
Findin’ my way to you
I’m leavin’ them as I was, five-foot-eight, Western belt
Plus the hate that they gave
By the way, thanks for that, on the way, I’ll pray for you
But you’ll need a miracle, America