07/07/2023

Steve Hackett

Piazza del Duomo, Pistoia


Forse Steve Hackett rappresenta, ancora più di Peter Gabriel, i Genesis degli anni 70 e le loro opere progressive, che tra soavi mellotron e testi criptici e visionari caratterizzarono una serie formidabile di album. Dopo l'acerbo esordio e il diamante grezzo costituito da “Trespass”, fu con l'ingresso di Hackett in sostituzione del chitarrista Anthony Phillips che si consolidò lo stile del Genesis classici, i quali con “Nursery Crime” crearono il loro primo capolavoro e restarono poi coerenti con la loro poetica art-rock romantica fino ai primi due album successivi all'uscita di Gabriel, con ancora Hackett alla chitarra. Il periodo dal 1971 al 1977 fu un lasso di tempo tanto breve quanto denso di creatività e di uscite discografiche, che lasciò un'impronta talmente profonda da consentire ancora oggi a Hackett di portare portare in tour la sua versione “autentica” di quei Genesis, nominalmente “revisited” (come dai titoli dei suoi dischi-tributo), ma in realtà profondamente fedeli agli originali.

 

La conferma è venuta dal concerto proposto all'interno del cartellone del Pistoia Blues in quella stessa Piazza del Duomo dove Hackett e la sua band si erano esibiti appena cinque anni or sono. Stessa formula di allora, con una prima parte dedicata a cinque pezzi della produzione solistica del chitarrista inglese, aperta e chiusa da due brani da “Voyage Of The Acolyte”, che più che un album solista costituì una sorta di side-project dei Genesis. Era il 1975 e Hackett era ancora stabilmente nella band inglese, i cui membri parteciparono alla registrazione dell'album e, nel caso di “Shadow Of The Hierophant”, firmata anche da Rutherford, addirittura alla composizione. È proprio il travolgente crescendo finale di questo pezzo (amputato della sezione iniziale che necessiterebbe di una voce femminile) a chiudere questa prima parte, molto applaudita dalla piazza pistoiese che però attende soprattutto la parte classicamente “Genesis”.

L'attuale tour della band di Hackett è incentrato su un omaggio a “Foxtrot”, fondamentale album del 1972 che contiene l'unica suite “lunga” dei Genesis, capace di riempire l'intera seconda facciata dell'Lp (a parte l'intro della breve strumentale “Horizons”) come era di moda allora, alla stregua delle varie “Atom Heart Mother”, “Echoes”, “Close To The Edge”, “Tarkus” e “Nine Feet Underground”. L'ascolto dal vivo dell'intero album eseguito tutto di seguito conferma la capacità di Hackett di riprodurre il sound dei Genesis anni 70 assai più di quanto - per loro evidente e comprensibile scelta stilistica - non facessero i tre Genesis superstiti nei loro live dagli anni 80 in poi, quando anche in tutto il vecchio repertorio riproposto riecheggiavano vagamente le tinte di “Abacab” e degli album successivi.
La formidabile band di Hackett, grazie soprattutto al colore inconfondibile della sua chitarra, ricrea alla perfezione quegli album di mezzo secolo fa. Tanta capacità rievocativa può essere considerato un limite, ma il rigore, l'umiltà e la coerenza con cui avviene la riproposizione fanno propendere più per un pregio.

“Foxtrot” riascoltato per intero si dimostra inoltre come l'album più immacolato dei Genesis. Non si intende con questo il migliore, ma quello che suona perfetto dalla prima all'ultima nota, compatto nel suo respiro sinfonico lungo tutti i suoi sei brani, al di là della pomposa grandiosità di “Supper's Ready”. Hackett è composto e antidivo sulla scena, lasciando che il cantante Nad Sylvan esprima il suo non indifferente carisma di frontman. Voce (a 64 anni) dal timbro clamorosamente simile a quello del giovane Gabriel, che pare essere preso a modello anche nella tecnica di agguantare le note acute o di passare repentinamente ai falsetti. Intelligentemente il vocalist statunitense di origine svedese non prova a scimmiottare l'istrionismo di Gabriel, sostituendolo con un'enfasi un po' sacerdotale che non stona affatto con questa musica.

 

Il finale della suite viene accolto con inevitabile tripudio dalla piazza - per lo più brizzolata, ma non solo - che viene premiata da due prevedibili quanto attesi encore: “Firth Of Fifth”, in cui Steve Hackett finalmente si prende il centro della scena nelle note e celestiali frasi di chitarra, e l'epico finale di “Los Endos”, preceduto da due assoli di basso e di batteria nei quali si scatena uno sfoggio virtuosistico d'antan, non proprio indispensabile, ma comunque veniale.