Su Roma stasera cala un timido accenno di primavera, ma il concerto è dentro. Precisamente nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, in uno dei quartieri più ricchi della Capitale. Il teatro è praticamente esaurito. Trabocca di ragazzi che pochi istanti prima hanno lasciato nel guardaroba dell'Auditorium giacche leggere e chitarre acustiche. Le prime a causa del famoso accenno primaverile, le seconde per via di una passione che in taluni casi, possiamo giurarci, è nata anche per via di quell’australiano del '55 che stasera salirà sul palco insieme alla sua Maton di abete chiarissimo.
L’arduo quanto onorato compito di aprire le danze spetta a un ragazzotto mingherlino, dai capelli lunghi quasi quanto le sue dita. Cerca di ingraziarsi il pubblico urlando più volte “forza Roma”, ma raggiunge l’obiettivo non tanto per quello che dice, quanto per quello che fa con la sei corde tra le mani. Mike Dawes - questo il suo nome - ha il tocco pulito e l’andamento sicuro di chi sa esattamente dov’è che vuole andare. Macina cover, percorrendo i solchi tracciati da Andy McKee e dal mostro sacro che di lì a poco lo seguirà sul palco. "Jump" dei Van Halen, "Be My Mistake" dei The 1975, "Fields Of Gold" di Sting e "Somebody That I Used to Know" di Gotye sono soltanto alcuni dei motivi per cui il pubblico di Roma accoglierà l’ingresso di Tommy Emmanuel con il sorriso già sulle labbra.
Con la chitarra a tracolla l’australiano rasenta l’immortalità. Si presenta in camicia bianca, jeans scuri e quel surreale temperamento di chi sembra non sbiadire mai. L’inizio è di quelli che sconquassa, con "Classical Gas" di Mason Williams. Emmanuel alterna pezzi celebri (“Mombasa”, “Train To Dusseldorf”, "Fuel" e “Halfway Home”) ad assoli percussionistici, dimostrandosi un esempio ineguagliabile e incomparabile di genio e talento, entrambi neanche lontanamente scalfiti dall’ineluttabile scorrere del tempo.
Visibilmente emozionato, Emmanuel trova anche il pretesto per ricordare suo padre con una commovente – e cantata - versione di “Still Can't Say Goodbye” di Chet Atkins. “Mi manchi papà”, sussurra alla fine, prima di chiedere al pubblico di esprimere qualche sincera richiesta. Un tipo grida “Somewhere Over The Rainbow” e viene subito accontentato. Il pezzo dell’hawaiano Israel Kamakawiwoʻole è diventato ormai un cavallo di battaglia di Tommy Emmanuel e ascoltandolo dal vivo neppure uno stolto potrebbe chiedersi perché.
Dopo un duetto con il chitarrista romano Alberto Lombardi, Tommy si rivolge al pubblico e chiede in maniera spiritosa a quanti piacciono i Rolling Stones, prima di iniziare un nostalgico e divertente medley dei Beatles. Con Dawes si affaccia persino al grunge di Seattle con una energica “Smells Like Teen Spirit” in versione acustica.
Roma gode, sorride e ammira, e quando il chitarrista saluta e scende dal palco, contesta a gran voce un congedo che, per fortuna – come vuole la tradizione - viene dall’australiano prontamente revocato. Nel quasi immediato ritorno sul palco, Tommy Emmanuel è nuovamente affiancato da Mike Dawes, con il quale decide di salutare il pubblico sulle note dolci e infuocate di “Slow Dancing In A Burning Room”. “This is a rearrangement of a song from one of my favourite artists, guitar players and songwriters”, aveva dichiarato qualche giorno prima sul palco di un teatro di Catania riferendosi a John Mayer. È un omaggio che sa di arrivederci e di buona notte. E stavolta va bene così, o almeno, in un modo o nell’altro ce lo facciamo bastare.