C'è stato un momento sereno e spensierato, durante l'infanzia o l'adolescenza di ciascuno di noi, in cui abbiamo imparato a crescere e a vagare per il mondo con le filastrocche di Angelo Branduardi: bastavano due soldi, un paio di musicassette e tanta immaginazione. Poi il tempo passa, circa mezzo secolo nel caso di chi scrive, e allora ne arriva inevitabilmente un altro più riflessivo e un pizzichino malinconico, in cui ci si ritrova improvvisamente adulti a cantare le stesse canzoni, illudendosi di essere ancora bambini.
Tornare indietro, per fortuna, si può, almeno per un'oretta e mezza, come accaduto lo scorso sabato 2 marzo a Roma, alla Sala Sinopoli dell'Auditorium. Ma data e luogo sono dettagli ininfluenti, sarebbe infatti potuto essere ovunque e in un qualsiasi altro giorno, visto che il menestrello lombardo - o forse sarebbe meglio chiamarlo "trovatore", come preferisce autodefinirsi - è l'unico capace sempre di fermare la clessidra per trasportare gli spettatori in una dimensione a parte, dove santi e apprendisti stregoni incrociano le loro storie con quelle di navigatori, di vascelli e di guerrieri, liriche di amore e morte si confondono a leggende del Medioevo, ballate della tradizione francese si mescolano a rime ebraiche, russe e anglosassoni. Un repertorio folk-pop ricchissimo e infinitamente grande - per parafrasare il titolo di un suo disco uscito nel 2000 in occasione del Giubileo e interamente dedicato alla vita di San Francesco - che entra in azione alle 21 in punto proprio con "Il Cantico delle Creature", fedele riproduzione musicata del testo originale del 1224 che resta ad oggi, a livello poetico, il più antico della letteratura italiana di cui si conosca con certezza la fonte.
L'omaggio a fratello Sole, intimo e sentito, è bissato da "La Predica della Perfetta Letizia", ancora di stampo religioso, che chiarisce subito quali saranno i toni del concerto, annunciato sold-out e come al solito equamente suddiviso tra successi degli anni Settanta e Ottanta a misura d'uomo e altri di indirizzo sacrale che hanno contraddistinto il catalogo recente, comprensibilmente indigesto ai più per un eccesso di sperimentazione colta, filologia e ricerca che lo rende un tantino ostico ma non meno affascinante. La scenografia è scarna, giusto qualche lucina ad agghindare il palco dove a qualche metro dal protagonista prende posto il fido Fabio Valdemarin, abile polistrumentista triestino che già da qualche anno lo accompagna stabilmente con la sua "piccola orchestra", suonando pianoforte a coda, chitarra e fisarmonica. I due si intendono alla perfezione e lo spettacolo decolla con una suggestiva versione recitata de "Il Violinista di Dooney", traduzione di un componimento dell'ex-Premio Nobel William Butler Yeats sulle cui opere nel 1986 Angelo Branduardi, in collaborazione con la moglie Luisa Zappa, aveva costruito un intero Lp, dal quale pochi minuti più tardi viene rispolverata anche "Un aviatore irlandese prevede la sua morte", che racconta il tragico destino toccato al pilota Robert Gregory, arruolato nell'esercito durante la Grande Guerra e poi trasferito sul fronte italiano, dove fu abbattuto da un fuoco amico in circostanze misteriose (oggi riposa nel Cimitero Maggiore di Padova).
A questo punto ammonisce scherzosamente la platea con le identiche parole che aveva usato, sempre qui, nel tour di due anni fa: "D'ora in avanti nulla vi sarà risparmiato", ed è una piacevole abitudine alla quale non vogliamo sottrarci. Rispetto ad allora sono previste tre o quattro hit in più, per la gioia di alcuni presenti che, assiepati tra i seggiolini a fianco, mormoravano di non conoscere praticamente nulla delle ultime produzioni, anche se a onor del vero il cantante è stato sinora bravissimo a togliere tutti dall'imbarazzo introducendo i brani meno celebri con un'adeguata spiegazione. E allora ecco l'immancabile "La Luna", e sin dalle note iniziali scrosciano applausi: tratto dall'omonimo disco del 1975, è il primo dei tormentoni classici in scaletta e ci catapulta indietro di una cinquantina di anni, quando, avvolto dal guscio dell'inconfondibile chioma riccioluta, il cantautore di Cuggiono faceva timidamente ingresso nella nostra cultura. Subito dopo sono brividi con la commovente "Il dono del cervo", amara meditazione sulla caducità della vita che rinnova a ogni ascolto emozioni senza età, mentre "1° Aprile 1965" è una trasposizione libera dell'ultima lettera scritta da Che Guevara ai genitori alcuni giorni prima di essere giustiziato. Il pathos è altissimo, il dialogo continuo tra piano e violino contribuisce a creare un'atmosfera solenne ma allo stesso tempo familiare e mai severa, anche perché Branduardi, da consumato maestro di scena, capisce che è ora di sdrammatizzare con "Il ciliegio" (che a partire dalla riedizione del 2013 ha mutato ufficialmente il titolo in "Rosa di Galilea", ndr.) e "La Giostra", un pezzo che "ho scritto per gioco tanti anni fa, dopo mi sono accorto che è anche molto carina". Dalla galleria si sente qualche risatina complice, quindi piovono altri applausi e arriva un delicato trittico di canzoni d'amore: "Profumo d'arancio", "Sotto il tiglio" (da un testo del tedesco Walter Von Der Vogelweide, è una delle più amate dai fan) e "Benvenuta donna mia" (dall'album del 1988 "Pane e rose"). La mesta "Lord Franklin" narra la storia vera del baronetto inglese, capitano di sventura che non fece mai più ritorno da un viaggio di esplorazione dei passaggi a Nord-Ovest, la delicata "La favola degli aironi" riavvolge ancora il nastro riportando le lancette al periodo fiabesco degli esordi.
Il bello però viene adesso, con un'accoppiata che fa venire più di qualche occhio lucido in sala: prima una versione splendida di "Geordie", struggente ballata scozzese di secoli addietro che fa riaffiorare una marea di ricordi e riporta in vita tanti grandissimi del passato che ci hanno lasciato (il riferimento più ovvio è all'indimenticabile Fabrizio De André, ma non solo), poi il capolavoro autobiografico "Confessioni di un malandrino", ricavato da un volume del 1920 del russo Esènin, che rappresenta probabilmente l'assoluta vetta artistica del "primo tra i poeti del paese", qui purtroppo un po' affaticato e alle prese con qualche problemino al microfono e un paio di dimenticanze. Ma va bene così, "il cuore ed i pensieri son gli stessi" e nessuno si accorge di nulla, dunque tutti in piedi per la meritata standing ovation.
Dopo una fugace uscita di scena, il duo delizia la platea con il bis doveroso, affidato ovviamente all'attesissima "Alla fiera dell'Est" e non poteva essere diversamente, dato che più di ogni altra cosa ha contribuito a scolpire il nome di Angelo Branduardi nell'olimpo degli immortali, quindi il magico girotondo si chiude in maniera festosa con la "La pulce d'acqua" e i più temerari sotto al palco a danzare. Resta solo il rimpianto per qualche esclusione eccellente dal palinsesto, come "Cogli la prima mela" e "Ballo in Fa Diesis Minore", dalle ritmiche forse troppo sostenute per gli arrangiamenti sobri scelti in questa serata: sarà per la prossima volta, magari tra qualche annetto ci risveglieremo bambini e saremo di nuovo qui a cantarle tutti insieme.