In fila liturgica, nell’afosa notte romana, varchiamo la porta del Monk Club per celebrare un gradito ritorno. Ben sette anni d’attesa dopo l’ultimo tour italiano dei Black Heart Procession, come sottolineato da un sempre imponente Pall Jenkins verso la fine del set capitolino. Circa 1 ora e 40 minuti con la mai perduta intensità sonica, nonostante l’inevitabile ruggine dopo svariati anni di silenzio. Al locale in Via Mirri c’è il pubblico delle grandi occasioni, pronto a sfidare il caldo opprimente di fine luglio. Impossibile perdersi un gruppo ormai di culto, amato al di là di un disco che manca praticamente dal 2009.
In apertura, gli stessi Grimoon di sette anni fa, come un ritorno in famiglia, sulle note tra psichedelia, riffoni post-rock e folk dal gusto transalpino. Una performance tra suono e visioni con lo scorrere dei video sul palco, prima di un sentito appello contro la guerra. Fine set alle 22.15 e poi circa venti minuti di pausa, mentre scorre un’altra fila verso il giardino esterno. Una processione per cuori neri, in attesa del ritorno del gruppo di San Diego, californiani sicuramente atipici se immaginiamo scenari alla The O.C. E’ infatti il piano desolato di “When You Finish Me” ad aprire il concerto, dall’ultimo album “Six”, che aveva incorporato nuovi elementi macabri nel sound del gruppo. La voce di Jenkins sembra dover carburare, ma le atmosfere sembrano già cariche in liturgia, come tutti si aspettano.
Un salto indietro di tre anni e si plana sull’elegante ritmo da film noir di “Tangled”, poi ancora indietro di un anno con il primo momento speciale del concerto. “Tropics Of Love” suona ineluttabile, maestosa, a metà tra il teatro dell’orrore, Cuba e il jazz-rock più oscuro. E’ la rappresentazione in musica dell’animo più cinematografico dei Black Heart Procession, che scava ancora negli archivi con una versione più sincopata e diretta di “Broken World”.
La scaletta continua con il disco “Amore del Tropico”, da cui viene estratta l’intensa malinconia di “A Cry For Love”, con un Jenkins più convincente a livello vocale dopo i primi esercizi di riscaldamento. La resa live è più minimale, in un approccio più rock nel live che avvia il lungo tour italiano del gruppo. Meno Rasputin del solito, Tobias Nathaniel martella al piano sull’honky-tonk demoniaco “It’s A Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes”, salutato dal timido boato di un pubblico estremamente composto e silenzioso.
Jenkins ringrazia in italiano, prima parola sussurrata dal palco, prima dell’algida desolazione di “Blue Water-Black Heart”, dal disco di debutto “1” che nel lontano 1998 ha strappato i cuori dell’indie-rock a stelle e strisce.
Il set diventa sempre più intenso, quando parte il ritmo martellante di “Square Heart”, che squarcia il buio con il suo straziante andamento marziale. “Blue Tears” è più asciutta senza la sua originale fanfara macabra, conservando però una struttura drammatica di grande impatto, mentre la successiva “The Letter” è aperta dal piano struggente per poi evolversi in una di quelle emozioni che connettono chi si è perduto nell’oscurità. Altro grande momento del set è l’evocazione folk di un deserto post-apocalittico, in quella “Your Church Is Red” che ha contribuito a costruire il capolavoro “2”. Decisamente di poche parole, Jenkins ricorda l’ultima volta che il gruppo ha suonato in Italia, prima di attaccare la nerissima cadenza di “Release My Heart”.
L’inquietante preghiera di “The Spell” chiude il set della band, che concede il bis dopo pochi minuti con la litania est-europea “The Old Kind Of Summer”. Il pubblico assiste rapito, in pochissimi cedono alla tentazione di uscire per allentare la pressione emotiva. L’ombra di “A Sign On The Road” pervade il Monk, prima dell’ultima deflagrazione nella conclusiva “Borders”. Mentre si scorre in fila verso l’aperto, i Black Heart Procession hanno dimostrato ancora una volta di essere assoluti protagonisti di una musica che penetra l’anima fino alla sua primigenia essenza.