Il parco in questione lo conosco bene: non bastasse che è stato la sede del festival Ama nelle ultime 5 edizioni, si trova a mezzo chilometro dalla casa dove sono cresciuto. A 8 anni ero stato lì a fare “ritiro spirituale” con la classe di catechismo in preparazione alla prima comunione. E domenica scorsa ho visto una degli idoli della mia adolescenza, Max Cavalera, bestemmiare allegramente sul palco. Credo ci sia una lezione in tutto questo.
In ogni caso, i 9000 biglietti staccati al concerto dei Megadeth la scorsa edizione sono sicuramente stati alla base della decisione di aprire una dependance per metallari nell’ambito dell’Ama festival che, negli anni, si è fatto sempre più grande. Non poteva che partire con le massime ambizioni, quindi, anche questo “Metal Park”, organizzato in collaborazione con Radio Freccia e il sito metalitalia.com. Due giornate in cui a fare da headliner sono stati chiamati Bruce Dickinson e gli Emperor e in cartellone gente come i fratelli Cavalera, Dark Tranquillity, Stratovarius... Non si è iniziato con il freno a mano tirato, insomma.
Sabato 6 luglio, mi reco a Ca’ Cornaro con mio figlio di 10 anni. E’ il suo primo concerto, ma credo di essere più emozionato di lui. Non so se gli piacerà (suo fratello di 13 anni ha declinato il mio invito definendo il metal “musica da ultraquarantenni sfigatelli” - so che è giusto che la pensi così circa la musica del papà, ma fa male lo stesso), né se resisterà fino a sera (il concerto inizia poco dopo mezzogiorno). Arriviamo che stanno suonando i Tyger of Pan Tang, nome storico della NWOBHM dignitosamente sopravvissuto ai decenni e a numerosi cambi di formazione. Musica onesta per gente onesta, e sentire brani come “Spellbound” fa sempre piacere, ma non credo qualcuno fosse lì per loro, nonostante le loro magliette con la tigre siano sempre presenti tra il pubblico.
Abbastanza inspiegabile come il terzo gruppo della giornata (non me ne vogliano i Moonlight Haze, non ho fatto in tempo) siano i Rhapsody (non aggiungo “of fire”, perché, tanto, di quelli parliamo). Con Turilli o meno, con Lione o meno, si tratta di un gruppo storico e amatissimo che ha segnato un’epoca per il metal italiano, forse la prima in cui il nostro paese ha potuto dire la sua a pari dignità con le altre scene europee. E, poi, gente che ha al suo arco frecce come “Dawn Of Victory” e “Emerald Sword” (entrambe proposte) avrebbe meritato ben altra posizione in cartellone. I cinque, comunque, sfruttano al meglio il loro poco tempo a disposizione e richiamano sotto il palco un gran numero di persone, nonostante l’orario infelice e il sole a picco.
Tocca, quindi, all’hard rock blueseggiante di Ritchie Kotzen, che si presenta con una formazione base a tre, con una proposta da viaggio in autostrada con il gomito della mano sinistra appoggiato alla portiera con il finestrino. I chitarristi saranno andati in sollucchero, io, personalmente, finito il concerto, non mi ricordavo mezza canzone, ma il mood era sicuramente piacevole.
Ben più elettrizzante è stato Michael Monroe: l’ex-Hanoi Rocks incarna meglio di tanti altri reduci gli anni 80 (quelli veri, non “Stranger Things”), occupa ogni angolo del palco girando con il microfono collegato con un filo chilometrico che a volte si attorciglia sulle casse, si arrampica sulle strutture ai lati del palco e si prodiga in numerose spaccate alla bella età di 62 anni. D’altronde, parliamo di uno che ha letteralmente inventato lo sleaze rock ed è stato Motley prima dei Crue. Vederlo suonare un sax rosso cromato in “Oriental Beat” è uno spettacolo ancora oggi.
Non deve essere stato difficile per gli Stratovarius decidere la scaletta del loro concerto: gli è bastato prendere i loro 10 brani più ascoltati su Spotify e riproporli dall’ultimo al primo. Poco male, perché sono 10 tra i massimi classici del power metal e, francamente, preferisco ascoltare “Legion”, “Paradise”, “Black Diamond” e “Hunting High And Low” rispetto a tutto quello che è stato fatto nei 20 anni successivi, prima e dopo l’abbandono dell’instabile padre padrone Timo Tolkki. Il gruppo, comunque, gira a mille con scandinava professionalità e il pubblico si sgola contento.
I Darkness sono spesso saltati fuori nelle discussioni con gli amici perché molti paragonano i Måneskin a loro. Ingiustamente, perché, posta l’assoluta e conclamata mancanza di originalità e il passatismo di entrambe le proposte, la band inglese è molto più divertente, quadrata, priva di ribellismi d’accatto e non ha avuto una pigra e provinciale stampa dietro a pompare i suoi membri come “salvatori del rock”. Ma, soprattutto, i Darkness sanno come scrivere brani veramente efficaci: “One Way Ticket To Hell” passerà per le radio anche tra una ventina d’anni, mentre sospetto che di “Zitti e Buoni” si perderanno presto le tracce. Dal vivo, i quattro si divertono e riescono a tenere sotto il palco una buona fetta di pubblico, nonostante il temporale che si scatena durante il loro concerto (“Il clima è veramente inglese, mi sento quasi a casa”, commenterà il cantante). Non male, per un gruppo che, di fatto, non fa altro che riproporre un glam anni 70 vitaminizzato il giusto e con qualche lustrino in meno. Semplice, diretto ed efficace.
Ma io, alla fine, ero lì soprattutto per lui: gli Iron Maiden sono sempre stati il mio gruppo preferito, perché il tuo gruppo preferito da adolescente è un po’ come la squadra del cuore: non la cambi manco morto. Poco importa che, con il senno di poi, il rientro di Bruce Dickinson nei Maiden abbia interrotto una brillante carriera solista, all’indomani dell’uscita di quell’immenso capolavoro che risponde al nome di “Chemical Wedding”. Nei vent’anni successivi solo due sarebbero state le sortite soliste: “Tyranny Of Souls” e il recente “The Mandrake Project”, lavori gradevoli, ma non esattamente all’altezza.
Emozionante, quindi, ascoltare il riff di “Accident Of Birth” aprire il concerto. Quando Bruce impugna il microfono e inizia a declamare “journey back to the dark side/ back into the womb”, è chiaro come l’uomo sia in forma e la voce ci sia tutta. Inoltre, la tripletta iniziale (con “Adbuction” e “Laughing In A Hiding Bush”) indica come l’ultimo disco “Mandrake Project” non sarà al centro della scaletta e, infatti, alla fine ne proporrà solo tre brani, contro i quattro del capolavoro “Chemical Wedding” e due degli altri dischi ("Tattoed Milionarire" e "Skunkworks" esclusi per pietà), con passaggi d’obbligo come “Tears Of The Dragon” e la monumentale “Dark Side Of The Acquarius”.
Manca lo storico collaboratore Roy Z., ma il gruppo che l’accompagna è davvero in palla, con la bassista Tanya O'Callaghan e il tastierista Mistheria sugli scudi. Quest’ultimo, in particolare, è bravissimo a ritagliarsi uno spazio importante all’interno di brani che, di per sé, avrebbero previsto un uso molto limitato del suo strumento. Se dal vivo gli Iron Maiden tendono a riproporre i brani in maniera abbastanza calligrafica, Bruce osa negli arrangiamenti e anche in trovate come la riproposizione di “Frankestein” dell’Edgar Winter Group - cinque minuti di funk-rock scatenato e puramente strumentale (forse anche per permettere al cantante di riposarsi, d’altronde il ragazzo ha 66 anni ed è reduce da un tumore alla lingua e un nuovo matrimonio) certamente non attesi.
Alla fine, dopo la doppietta conclusiva “Book Of Thel” e “The Tower”, il gruppo saluta, e io e mio figlio (che, contro ogni aspettativa, ha retto quasi 12 ore di concerti) ci dirigiamo verso la macchina. Durante il viaggio non crolla, ma passa tutto il tempo a parlare dei gruppi che hanno suonato, di come sia contento di aver ricevuto autografi al “meet and greet” e di essersi fatto una foto con Michael Monroe. Ammetto di essere soddisfatto: il mio primo concerto fu Zucchero a 14 anni (quello passava il convento dalle nostre parti all’epoca). A lui è andata decisamente meglio.