Difficile farsi largo fra la folla al Circolo Angelo Mai, dove il concerto degli I Hate My Village ha registrato il tutto esaurito. La serata si è aperta con gli Hate Moss, un duo post-punk/elettronico di base a Londra. Maria Cristina Galassi, aka Tina, ha acceso la platea con i suoi suoni elettronici sincopati, mentre Ian Carvalho, italo-brasiliano, ha dato energia dietro la batteria. Il loro set è stato un preludio perfetto, capace di accendere il pubblico con ritmi cupi ma molto coinvolgenti.
Dopo una breve pausa accompagnata dalle potenti note dei Motorpsycho sparate a tutto volume, è stato il momento degli I Hate My Village, che hanno regalato uno spettacolo travolgente, dimostrando ancora una volta di essere una delle realtà più originali e potenti della scena musicale italiana contemporanea.
Il live è stata un’occasione per esplorare a fondo i due album della loro discografia: l’omonimo Lp del 2019 e l’ultimo “Nevermind The Tempo". La serata si apre con le indiavolate note di “Tramp” e “Italiapaura”, una doppietta che accende immediatamente l’atmosfera, per poi proseguire con l’energia travolgente di “Acquaragia” e l’acclamatissima “Watertanks”.
L’alchimia fra i musicisti è strepitosa: in “Present Tense”, le dissonanze si intrecciano a un groove martellante, costruendo una tensione irresistibile; in “Fame” Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) si prende la scena con una performance impeccabile. La sua chitarra diventa sovente protagonista intrecciando sofisticati bending a rapidi movimenti delle dita. Nonostante le forti personalità in gioco, la coesione del gruppo è apparsa ai limiti della perfezione. Ogni membro sembra alternarsi naturalmente tra il ruolo di protagonista e quello di comprimario, senza mai oscurare gli altri. Alberto Ferrari (Verdena) è il mattatore della serata e alterna momenti di interazione col pubblico a incursioni vocali tanto surreali quanto divertenti.
La scaletta esplora quasi interamente l’ultimo album (solo “Dun Dun” non è stata eseguita), con brani come “Enodegrado”, “Erbaccia”, “Jim” e “Come una poliziotta”, che mantengono alta l’energia del pubblico. La commistione di generi che caratterizza la band e la passione per il desert rock emergono prepotentemente, non solo in pezzi come “Mauritania Twist”, dove i richiami a gruppi come i Tinariwen sono evidenti, ma anche in tracce più stratificate come “Fare un fuoco”. Qui Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) brilla con una batteria che alterna pulsazioni tribali a intricate costruzioni ritmiche, dimostrando un'eleganza tecnica e un dinamismo che lo portano a dialogare continuamente con gli altri strumenti.
L’unico appunto che si potrebbe fare agli I Hate My Village è che il loro approccio è quasi esclusivamente focalizzato sulla musica, con poche interazioni dirette con il pubblico. Tuttavia, nella parte finale del concerto, ogni riserva viene completamente ribaltata. La band invita un nutrito gruppo di fan a salire sul palco, trasformandolo in una scena di puro caos creativo. Fra le note travolgenti di “Tony Hawk Of Ghana” e “Artiminime”, il palco si tramuta in una strampalata discoteca post-punk/math rock, con la band che continua a suonare imperterrita mentre intorno accade di tutto: balli sfrenati, baci appassionati e persone che si lanciano in dirette social. Un finale memorabile, coronato dalla decisione degli I Hate My Village di dedicare l’intera serata alla memoria di Francesco Cerroni, colonna portante della scena musicale romana, scomparso nei giorni scorsi.