02/06/2024

National

Carroponte, Sesto San Giovanni (Mi)


Serve tempo per elaborare un concerto dei National, o almeno da parte di chi scrive è stato necessario, perché l’impressione è che si sia trattato di un bellissimo sogno. Ormai da qualche anno consueta e temibile protagonista dei mesi di maggio e giugno, la pioggia torrenziale non ha risparmiato le povere anime che attendevano con impazienza al Carroponte di Sesto San Giovanni la prima delle due date italiane programmate dal gruppo indie-rock di Cincinnati, e considerati gli imprevedibili risvolti della situazione, lo spettro di un possibile annullamento del live iniziava gradualmente a insinuarsi nelle menti dei presenti. Ed è quando si sente ripetutamente gente esordire in differenti conversazioni attorno a sé con un “ma vi ricordate cos’è successo nel 2022 a Bologna, quando si sarebbero dovuti esibire gli Iron Maiden?”, aneddoto per eccellenza entrato di diritto nel pantheon delle più indimenticabili sfighe supreme, che i brividini causati dal clima e dal nervosismo si trasformano rapidamente in sudori freddi, pronti a evolvere in imprecazioni rivolte a entità celesti, nel disperato tentativo di spronarle a fare di meglio.

Fortunatamente alle 20,30 la (Divina) Provvidenza fa sì che il temporale si calmi, consentendo agli addetti ai lavori di asciugare e sistemare il palco, e garantire che lo show inizi all’orario prestabilito. I Nostri entrano in scena sulle note di “Slippery People” dei Talking Heads, ai quali Matt Berninger e soci hanno recentemente reso omaggio reinterpretando la loro “Heaven”, cover inclusa nel (purtroppo decisamente discutibile) album corale “Everyone's Getting Involved: A Tribute To Talking Heads' Stop Making Sense”, apparendo da subito in forma eccellente; e non appena partono le note di piano dell’intensa “Once Upon A Poolside”, tratta dal primo dei due nuovi lavori presentati in tour, “First Two Pages Of Frankenstein”, la sensazione di disagio provocata dall’essere zuppi e sfatti peggio di un vecchio mocio Vileda scompare nel nulla.
Ingranano in crescendo i ritornelli corali cantati a squarciagola di “Eucalyptus” e i ritmi incalzanti di “Tropic Morning News”, giungendo al primo highlight, ovvero una calorosa “Demons” cantata in faccia alle prime file, e arricchita dai riff armonici e imponenti delle chitarre dei fratelli Aaron e Bryce Dessner.
Berninger, (adorabile e) incontenibile mattatore assoluto, cerca da subito e a più riprese il contatto con la folla, tra continui movimenti, balletti e interazioni dirette, ponendo in evidenza un elemento fondamentale: ognuno di noi è parte attiva dell’evento, e contribuisce portando qualcosa di sé, ovvero emozioni genuine che fungono da ulteriore benzina per i brani fortemente sentiti e vissuti (anche) da chi li interpreta sul palco. Prova di tale ragionamento è un cartello che reca la scritta “10 years of fanservice” e che fa bella mostra di sé sul palco per quasi tutta la durata dell'esibizione, riferimento che non si limita ai soli cambi di scaletta ad ogni data, pensati per includere a rotazione tracce inconsuete e apprezzate in particolare dai fan, ma al rapporto instaurato tra gruppo e pubblico.

Tra le chicche snocciolate in corso d’opera non si possono dimenticare la cornice strumentale di “I'll Still Destroy You”, e l’esplosiva “Abel”, con dedica indirizzata a Donald Trump, per poi tornare all’ultima produzione con gli ottoni di “Alien”, “Laugh Track” e l’interessante resa dal vivo della fin troppo sottovalutata “Smoke Detector”, altro vertice di tutto rispetto.
Lo show si mantiene costantemente in alta quota con “Don't Swallow The Cap” e “Bloodbuzz Ohio”, scandite dalla valida sezione ritmica affidata a Scott e Bryan Devendorf, le coinvolgenti “The System Only Dreams In Total Darkness” e “Conversation 16”, la più profonda e scarna “I Need My Girl”, passando per “Day I Die”, la fragile “Pink Rabbits” e una più grintosa “Rylan”, fino al piano e alle trombe della solenne “England”. La conclusione del set principale spetta invece al trittico composto dalle fondamentali “Graceless”, una spettacolare “Fake Empire”, e la nuova “Space Invader”, che al pari di “Smoke Detector” acquisisce maggior spessore in fase live.

Sorprende il ricchissimo encore, dove a svettare è un’inaspettata “Cherry Tree”, a cui fanno seguito l’epica “Mr. November” (rivolta in questo caso a Joe Biden), durante la quale Berninger si immerge nuovamente in mezzo ai fan, e le chitarre taglienti della tormentata “Terrible Love”. Il finale è accompagnato da uno splendido messaggio di Matt in apertura all’attesa “About Today”, nel quale oltre a un augurio per l’inizio del Pride Month, invoca il rispetto di tutti i diritti umani, con un particolare accento sulla difficoltà da parte delle donne di avere la possibilità di abortire in maniera sicura, fino a una richiesta di cessate il fuoco su Gaza, per poi chiudere in acustico con “Vanderlyle Crybaby Geeks”, intonata dal pubblico con il carismatico frontman in qualità di “direttore”.
Ogni performance dei National è uno spettacolo unico, ogni setlist un’imprevedibile sorpresa, e vale la pena combattere ben più di una tempesta e ruzzolare nel fango pur di potervi assistere almeno una volta, perché sarà sicuramente qualcosa che ci si porterà dentro per sempre: un momento di grande condivisione, nonché un personale abbraccio, tra ogni singolo spettatore e la band, per provare ad accendere un piccolo lume in questi tempi così bui.