La Paris La Défense Arena è una struttura multifunzionale a Nanterre, comune francese situato nella banlieue nord-ovest di Parigi, ed è sede degli incontri interni della squadra di rugby Racing 92. Parte di un progetto di riqualificazione urbana, con 5.500 tonnellate, 28.632 mq di spazio, 13 km di tribune, lo schermo gigante interattivo più grande al mondo e una capacità che, a seconda della configurazione, può variare tra 10.000 e 40.000 spettatori, è una delle arene coperte più grandi d’Europa. Inaugurata nel 2017, i Rolling Stones furono i primi musicisti rock a esibirsi al suo interno e l’acustica è quanto di meglio ci si possa aspettare da una struttura contemporanea di siffatte dimensioni.
Paul McCartney torna alla Paris La Défense Arena per la quarantanovesima tappa del Got Back Tour, incominciato negli Stati Uniti il 28 aprile 2022 (Spokane, Wa). È la prima data europea dall’esibizione del 25 giugno 2022 al festival di Glastonbury (Uk); lo show fu considerato tra i più memorabili della sua intera carriera e, tra l’altro, fu il cinquecentesimo con l’attuale band.
I biglietti per i concerti parigini sono andati sold-out in poche ore e ad accogliere l’ottantaduenne artista di Liverpool, sia mercoledì 4 che giovedì 5 dicembre 2024, c’è una folla di quarantamila spettatori paganti per serata. Le aspettative sono dunque altissime ed è tangibile l’impazienza di scoprire quali highlight di una brillante carriera ultrasessantennale saranno proposti lungo la serata.
Intorno alle 20,30, dopo un lungo dj-set celebrativo dell’opera McCartney-iana, sullo splendido palco modulare sale il nostro, accompagnato dalla band più longeva che abbia mai avuto: dal 2002, infatti, a condividere il palco con lui sono il fedelissimo Paul “Wix” Wickens, tastierista, polistrumentista e soprattutto direttore musicale degli spettacoli di McCartney dal lontano 1989, Abe Laboriel Jr., voce e batteria, Rusty Anderson, voce e chitarra solista e Brian Ray, voce, chitarra ritmica e basso. Con loro, anche gli Hot City Horns, sezione di fiati composta da Mike Davis (tromba), Kenji Fenton (sassofoni) e Paul Burton (trombone).
Il concerto ha inizio con una versione al fulmicotone di “Can’t Buy Me Love”. La scelta del pezzo non sembra casuale: nel 1964, infatti, prima che la Beatlemania incendiasse gli Stati Uniti, i Beatles si esibirono per una serie di diciotto spettacoli all’Olympia Theatre di Parigi. Durante il loro soggiorno parigino i musicisti, ospiti nell’Hotel George V, chiesero al personale dell’albergo di portare nella loro suite un pianoforte verticale per assecondare il flusso creativo di quei giorni. Pare che, raggiunto dalla notizia del raggiungimento della prima posizione nelle classifiche americane del recente singolo “I Want To Hold Your Hand”, Paul compose, elettrizzato, “Can’t Buy Me Love”.
Seguono solide interpretazioni di “Junior’s Farm”, singolo del ’74 attribuito ai Wings ma composto da Paul e dalla sua lovely Linda, scomparsa nel 1998, e di “Letting Go”, altro singolo estratto questa volta dall’Lp dei Wings “Venus And Mars” (1975).
Il pubblico dell’Arena, forse un po’ troppo tranquillo per i canoni nostrani, incomincia davvero a scaldarsi col quarto pezzo in scaletta: l’arcinota “Drive My Car”, tratta da “Rubber Soul” (1965), che riporta l’attenzione sul repertorio beatlesiano, a cui fa seguito una scoppiettante “Got To Get You Into My Life”, originariamente pubblicata su “Revolver” (1966). Il pezzo, però, evidenzia impietosamente le ovvie e, devo dire, tollerabili differenze canore del McCartney ventiquattrenne rispetto all’attuale. Paul ha trascorso sessantasei anni di vita a cantare ininterrottamente, senza mai cedere ad alcun compromesso che comportasse agio alla propria tecnica vocale: al di là della celebre esibizione all’Ed Sullivan Show dei Beatles nel febbraio del ’64, durante la quale, forse spaventati dall’influenza che colpì pochi giorni prima George Harrison, dovettero abbassare le tonalità dei brani per evitare problemi di voce, non ho memoria di un solo concerto di McCartney con Beatles, Wings o solista, in cui abbia fatto ricorso a simili espedienti. Purtroppo, ogni cosa ha un prezzo e il suo mid-range, compromesso ormai da anni, è divenuto un tallone di Achille; la sua voce, infatti, su pezzi come “Michelle”, “Blackbird”, “Maybe I’m Amazed” e soprattutto “Here Today”, non è e non sarà mai più quella di un tempo. Stiamo d’altronde parlando di un perfomer di ottantadue anni. Ciò che impressiona, in realtà, è la grinta e l’intenzione di ciascuna esecuzione. Ecco, quelle ci sono ancora e provocano emozione.
La scaletta prosegue con “Let Me Roll It”, uno dei brani più efficaci di “Band On The Run” (1974), sul cui finale la band indulge con una resa strumentale della hendrixiana “Foxy Lady”. D’altronde McCartney non ha mi nascosto il proprio amore per il chitarrista di Seattle.
Lungo la serata, vengono proposti tre estratti dal capolavoro beatlesiano “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967): “Getting Better”, la lennoniana “Being For The Benefit Of Mr. Kite”, che Paul intona accompagnandosi con il suo fedele Höfner (ha rivelato in più occasioni che la linea di basso di questa canzone è la sua preferita tra quelle da lui composte nel periodo-Beatles), e la graffiante ripresa della traccia eponima dell’album. Un’autentica esplosione di gioia, surclassata soltanto pirotecnicamente e verso la fine della serata da un’entusiasmante versione di “Live And Let Die”.
McCartney propone anche una versione della dolcissima “My Valentine”, dedicata alla moglie Nancy Shevell, presente al concerto. Il brano, che fece da colonna sonora al loro ballo nuziale, è uno dei due originali contenuti nell’album “Kisses On The Bottom” (2012).
C’è posto anche per “In Spite Of All The Danger”, composta da Paul assieme a George Harrison nel ’58, quando suonavano nei Quarrymen, e “Love Me Do” (1962), il singolo da cui tutto ebbe inizio, eseguite con precisione e accolte da incontenibili ovazioni da parte del pubblico.
“Blackbird”, tratta dal “White Album”, viene rappresentata in solo voce/chitarra dalla cima della pedana mobile che si eleva al centro del palco ed è seguita da una tanto toccante quanto vocalmente claudicante “Here Today” (da “Tug Of War”, del 1982), dedicata all’amico John Lennon.
È la prima volta che Paul esegue “Now And Then” in Europa ed è emozionante sentirla cantare da lui, di fronte alle immagini del video montato da Peter Jackson (in platea, pare).
Il prosieguo è affidato a grandi classici quali “Lady Madonna”, “Jet”, “Ob La Di Ob La Da”, “Band On The Run”, “Get Back” e “Let It Be”. McCartney ama sottolineare quanto apprezzi i sacrifici dei fan accorsi da ogni angolo del mondo per vederlo dal vivo e li ripaga inanellando una serie infinita di successi. Il suo canzoniere è talmente ricco e di qualità che può persino permettersi, senza creare scompiglio, di omettere dalla scaletta l’esecuzione di un brano da Guinness dei Primati come “Yesterday” (1965), che vanta un successo planetario con il maggior numero di cover registrate (1.600)!
Rispetto alle tournée precedenti, il McCartney del Got Back Tour sembra aver trovato maggior equilibrio con il proprio mito e a colpire è la spontaneità con cui si muove avanti e indietro nella storia della musica. Al contrario della volta scorsa, sul palco non c’è la sua Epiphone Casino, la chitarra su cui compose “Paperback Writer” e con la quale celebrò le dissonanze degli Yardbirds nel solo di chitarra di “Taxman”. Troviamo però il suo iconico Höfner a forma di violino che, dopo essere stato messo in custodia quasi definitivamente nel 1970, fu ripristinato nel 1989 dietro consiglio di Elvis Costello; c’è la sua coloratissima Gibson Les Paul mancina, con la quale dà energia a ogni versione di “Let Me Roll It”, lo psichedelico “Magic Piano”, su cui esegue molti dei brani più leggendari della serata e l’ukulele donatogli da George Harrison, che utilizza per tributare omaggio all’amico scomparso nel 2001 con un’interpretazione profonda e sentita di “Something”.
Trascorse due ore di adrenalina pura, il concerto sembra volgere al termine e Paul saluta i fan sulle note di “Hey Jude” (1968). Dopo pochi minuti, però, la band torna sul palco e si produce in un’emozionante versione di “I’ve Got A Feeling” (1970). In retroproiezione vengono trasmesse immagini tratte dall’imperdibile documentario “Get Back” (2021) di Peter Jackson. Il regista neozelandese è riuscito ad affinare una tecnica di restauro delle immagini tanto elevata da rendere possibile qualcosa di veramente unico: lo special del pezzo, originariamente cantato da John Lennon, viene trasmesso in alta definizione sullo schermo, rappresentando una sorta di duetto virtuale tra Paul, girato di spalle al pubblico mentre scorre la canzone, e l’amico di sempre. Il cuore di ciascun beatlesiano non può rimanere immune da una tale quantità di emozioni. Ma non c’è tempo per i sentimentalismi: il ruvido rock di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)” (1967) ci avverte che stavolta i giochi stanno volgendo davvero al termine e, dopo una ruggente versione di “Helter Skelter” (1968), “Golden Slumbers” (1969) augura a tutti la buona notte e introduce i graffianti duetti chitarristici di “Carry That Weight” che conducono inesorabilmente all’elegiaca melodia di “The End” per dispensarci un prezioso insegnamento di vita: “the love you take is equal to the love you make”.
Cala il sipario e resta il ricordo di un’esperienza memorabile, da raccontare ai nipoti davanti al caminetto durante un gelido inverno. Magari durante un “Wonderful Christmastime”.
Bis: