Un boato di approvazione incondizionata si alza colmando l’alto soffitto della Sala dei Giganti di Palazzo Liviano, in una piovosa serata nel centro di Padova; è l’effetto Peter Hammill il quale, contagiati i protagonisti di un sold-out meritatissimo, sparge nell’etere la sua voce apolide da tempo e spazio, intonando l’incipit del primo capolavoro: “In My Room”.
Il concerto organizzato da Barley Arts si apre così, giovedì 21 novembre, con la straniante bellezza del verso d’apertura “Alla ricerca di diamanti nella miniera di zolfo”, intonata al pianoforte a coda dal leggendario cantante britannico, una magrissima apparizione coperta da una camicia spiegazzata e un paio di pantaloni bianchi. Il resto è scivolato, per un’ora e mezza, nell’esaltante abbandono tipico del sogno, con l’ex-frontman dei Van Der Graaf Generator ad alternarsi tra piano e chitarra acustica, suonati con un pathos travolgente, una tecnica personale ed elementare che riesce a spogliare al meglio pezzi consegnati alla storia senza far rimpiangere le versioni originali.
Nulla togliendo all’inventiva dei suoi compagni nella formazione storica dei Van Der Graaf Generator (Hugh Benton all’organo, Guy Evans alla batteria e David Jackson ai fiati), le riletture hammilliane amplificano, se possibile, i sentimenti di alienazione, malinconia e solitudine di cui sono intessute, facendo di ogni brano in scaletta un monolito alla crisi dell’umanità moderna. Eppure Peter appare attraversato da una leggerezza e un’ironia sornione: pur contenendo la comunicazione col pubblico a una manciata di parole di circostanza, pare penetrare nelle menti di ogni ascoltatore, vellicando quelle zone d’ombra e di tristezza che ognuno ha sperimentato nella vita, ricavandone un opus collettivo da strillare in faccia alla finitezza che ci abita, latente.
Rallegra constatare come una nutrita fetta di spettatori canticchi sottovoce strofa dopo strofa, diario evidentemente condiviso di un’identica maniera di percepire il mondo, con lenti crepuscolari ma certamente poetiche. E i testi di Hammill, nella modalità acustica in solo, emergono ancor più, ricordandoci che egli resta uno dei più complessi e originali parolieri nella storia del rock, bardo capace di comporre inni dalla potenza psicanalitica, come pure canzoni d’amore in cui l’abbandono sembra l’unico lido a cui è possibile attraccare.
Ci struggiamo sulle note di “Just Good Friends”, torniamo a sperare nel sussurro di “A Better Time” e, nel bis, ripeschiamo la desolante “Refugees” dal glorioso capolavoro del 1970 “The Least We Can Do Is Wave To Each Other”. Anche noi, a quel punto, come raccontato in un altro pezzo leggendario purtroppo non presente nella tracklist padovana, “Lemmings”, serbiamo davanti agli occhi l’immagine di tutte le persone amate che, per i motivi più diversi, si sono gettate dalla scogliera dell’esistenza, negandosi all’amore che avremmo voluto donar loro. Gli applausi, alla fine di tutto questo, non sembrano sufficienti, ma tocca accontentarsi e accettare la finitezza dei nostri linguaggi in comune.