21/05/2025

And Also The Trees

Studio Miriam, Roma


Di solito, quando si va a sentire dal vivo uno dei gruppi del cuore, la speranza è che ci regali le sue canzoni migliori, così da giustificare il prezzo del biglietto e tutti gli altri soldi spesi, nell'arco dei decenni, per comprare suoi cd, libri, gadget e videocassette. Nel caso degli And Also The Trees, però, è difficilissimo stabilire quali esse siano, dato che in oltre quarantacinque anni di attività non si ricordano grossi exploit, né alcuna hit particolare. Ma, in fondo, il bello è proprio questo: ogni volta ti lasciano addosso la sensazione inebriante della scoperta, simile a quella scossa che si prova al primo appuntamento, come se non avessimo ancora mai ascoltato nessuno dei loro album, quando in realtà a casa ce li abbiamo a uno a uno, solo magari un pochino impolverati. E a giudicare dalle ultime entusiasmanti performance, sarebbe ora di ritirarli fuori dagli scaffali.

Lo scorso 21 maggio, a Roma, eravamo circa un centinaio di fedeli ad attenderli allo Studio Miriam, una sala di registrazione accogliente e ben attrezzata che si trova in zona Don Bosco, sulla Tuscolana, attaccata alla parrocchia San Gabriele dell'Addolorata. La band, per chi non lo ricordasse, era stata fondata nel 1979 a Inkberrow, un villaggio del Worcestershire, da due coppie di fratelli, Justin e Simon Huw Jones e Graham e Nick Havas, che erano riusciti a guadagnarsi subito una nomea nel circuito darkwave tanto da attirare l'attenzione dei Cure: Robert Smith li chiamò a fargli da opening act per le date di diversi tour, poi li aiutò a produrre il loro Ep d'esordio “From Under The Hill”, mentre Lol Tolhurst mise mano al singolo “Shantell/Wallpaper Dying” e al primo full-length eponimo “And Also The Trees” del 1984.
Malgrado la popolarità fulminea, in termini commerciali avrebbero raccolto meno di quanto meritato, eppure non hanno mai smesso di fare musica. Chi ha continuato a seguirli sa che vantano un curriculum di livello e in pregevole evoluzione: dopo la pubblicazione di “And Also The Trees”, “Virus Meadow”, “The Millpond Years” e “Farewell To The Shade”, considerati i loro Lp classici degli anni Ottanta, artisticamente sono cresciuti parecchio, allontanandosi dalle sonorità post-punk degli esordi sino a coniare un linguaggio espressivo raffinato e svincolato da etichette, ricco di influenze folk e jazz, che trae ispirazione, sia nelle liriche che nelle strumentazioni usate, dai paesaggi fuori dal tempo e dalla dimensione rurale dell'ambiente circostante, rievocata ad hoc da dulcimer, oboe, piano e clarinetto, xylofono e fisarmonica, riverberi e delay, la chitarra pizzicata come fosse un mandolino e sullo sfondo un'elettronica discreta, essenziale e mai invadente.

Il concerto dell'altra sera, annunciato sold-out, è cominciato con una mezz'oretta di ritardo ed è stato aperto da The Second Nature, valido gruppo spalla romano formato da Leonardo Mirenda, Lorenzo Ziccolella, Fabio Bonanni e Mauro Cola. I quattro, che hanno appena sfornato l'Ep “Stone Marten”, hanno impressionato favorevolmente con un misto di art-folk, prog e psichedelia, prima di fare largo, intorno alle 21,40, ai protagonisti più attesi, i suddetti And Also The Trees, che in questi giorni, in Italia, hanno fatto tappa anche a Bergamo, Rosà (provincia di Vicenza), Firenze, Caserta e Pescara (torneranno il 14 giugno a Bologna in occasione del “BOtanique Festival”). Nella Capitale mancavano dall'ottobre del 2016: allora erano venuti per presentare l'ottimo “Born Into The Waves”, oggi tocca alla loro quattordicesima fatica in studio “Mother-Of-Pearl Moon”, del 2024, uno dei lavori in assoluto più maturi e completi del catalogo recente. Oltre al sound, nel frattempo anche la line-up si è radicalmente rinnovata, e accanto agli unici superstiti del nucleo originale, Justin e Simon Huw Jones (rispettivamente chitarra e voce), oggi ci sono Grant Gordon al basso, Paul Hill alla batteria e Colin Ozanne, che si divide tra chitarra, tastiere e clarinetto.

Il prologo è affidato a Justin Jones, che tesse abilmente una delicata “Intro” strumentale (è l'ouverture di ”Mother-Of-Pearl Moon”, appunto), quindi lo show vero e proprio inizia quando sale sul palco Simon, che era rimasto defilato nell'ombra qualche metro più in là. Il cantante, oggi sessantacinquenne, appare in splendida forma e sempre curatissimo, come il cappotto elegante che indossa sopra il panciotto e la camicia bianca che gli conferiscono quel fascino decadente da poeta maledetto. Non è una maschera, ma lo stesso abito ottocentesco che vestono più o meno tutti i suoi brani, i cui versi raccontano di avventure per mare, di mercanti e di tempeste, di città fantasma e di foreste incantate, di duellanti e di sirene, di bestie feroci, di angeli e di demoni.
I personaggi vanno e vengono dalla storia, dal mito e dalla letteratura, a volte sono reali e altre inventati, nessuno sa cogliere la differenza, tanta è la drammaticità delle interpretazioni del frontman, che domina su tutto il resto e rende ogni fantasia credibile. Ne sono un mirabile esempio la crudele “The Whaler”, che narra di un cacciatore di balene in balia di un naufragio, l'ansiosa “Town Square”, costruita con fine tecnica su ritmiche shuffle, e la ballata inquieta “Visions Of A Stray”, dal tamburellante finale in crescendo che di “Mother-Of-Pearl Moon” costituisce sicuramente una delle più fulgide highlight, assieme alla title track e alla suggestiva “Valdrada”, che traduce adeguatamente in note i miraggi de “Le città invisibili” di Italo Calvino. “Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d'un lago, con case tutte verande una sopra l'altra e vie alte che affacciano sull'acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago, e una riflessa capovolta. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso, punto per punto”. Così scriveva, in sintesi, Calvino nel 1972, e a oltre cinquant'anni di distanza gli spettri di questa dicotomia aleggiano in maniera complementare nelle opere dei “Trees”, come li soprannominano i fan di vecchia data che si confondono tra le (poche, per la verità) file di sedie: qualcuno sfoggia orgoglioso una maglietta dei Ramones, qualcuno dei Talk Talk, qualcuno dei Sad Lovers And Giants, potremmo pensare di essere a un patetico revival per vecchie glorie e invece è appena decollato un esaltante volo verso il presente, interrotto all' improvviso da un black out elettrico che costringe la band alla sospensione per una decina di minuti.

Ne approfittiamo per rifiatare e prendere un drink, poi si riparte spediti con “Your Guess”, gioiellino di altissimo cantautorato che, come quasi tutte le produzioni dell'ultimo periodo, per timbro e impatto emotivo richiama immediatamente il Nick Cave più sobrio e meno spaccone, ma a tratti anche Leonard Cohen, il Mick Karn solista, Scott Walker o Gavin Friday: i riferimenti sono molteplici, tanti sono gli orizzonti compositivi che la band inglese ha accarezzato negli anni.
“The Suffering Of The Stream” (si può ascoltare su “The Millpond Years” del 1988), “There Were No Bounds” (dall' Ep del 1985 “The Secret Sea”) e “Virus Meadow” (dall'omonimo Lp del 1986, è una delle più acclamate dai presenti) sono un tuffo nostalgico nell'estetica più squisitamente gotica del passato, che permea anche i lavori successivi in una chiave però diversa, adulta e consapevole, dove la malinconia non è più condanna, ma diviene anzi forza interiore e impulso creativo.
“Paradiso” e “Brother Fear” (da “Angelfish” del 1996) sono una sfiziosa parentesi di metà anni Novanta, fase in cui il gruppo aggiunse ingredienti di lounge music e r'n'b al proprio bagaglio sonoro: entrambe possiedono quel feel cinematografico che avrebbe ben figurato nella colonna sonora di un film di Tarantino. Quindi le atmosfere tornano oscure e meditative sugli arpeggi di “Dialogue”, in “Domed” e nella passionale “In A Bed In Yugoslavia”, di sapore gitano, frutto delle numerose esperienze a Est dei Trees che in questi anni sono stati invitati più volte a esibirsi in paesi come Romania, Ucraina e Lituania, ampliando notevolmente il raggio d'azione.

A reiterare la formula il rischio che si corre è una certa ripetitività, ma per fortuna non la monotonia, dal momento che ogni traccia è una godibile pièce a sé, con un'identità ben definita, scolpita da interpretazioni teatrali di razza, turbolente e vigorose, dalle quali è impossibile non lasciarsi coinvolgere. Forse anche troppo veementi, ironizza qualcuno, dato che Simon Jones recita spesso inginocchiato per terra, con gli occhi chiusi o tenendo un libro di poesie in mano: una rockstar non lo è mai stata, ma se volesse farebbe ancora in tempo a diventarlo, del resto frecce al suo arco di seduzione ne ha quante ne vuole. Qualcuno li aveva ingiustamente sottovalutati, ma dopo lo spettacolo cui stiamo assistendo bisognerà ricredersi.
Nuovo rapido break e siamo giunti ai saluti: il bis offre due dei loro pezzi in assoluto più iconici, “A Room Lives In Lucy” e l'immancabile “Slow Pulse Boy”, mini-inno da “Virus Meadow”, del 1986, sulle cui note cala il sipario. Ce ne andiamo veramente soddisfatti, augurandoci di rivederli presto. Spesso, a proposito di un artista, si usa dire che il tempo si è fermato, ma per alcuni, ne siamo convinti, è meglio che continui ad andare avanti.

Setlist

  1. Intro
  2. The Whaler
  3. Town Square
  4. Visions Of A Stray
  5. Your Guess
  6. The Sufferings Of The Stream
  7. Valdrada
  8. Virus Meadow
  9. Mother-Of-Pearl Moon
  10. In A Bed In Yugoslavia
  11. Dialogue
  12. Brother Fear
  13. Paradiso
  14. There Were No Bounds
  15. Domed
  16. A Room Lives In Lucy
  17. Slow Pulse Boy

And Also The Trees su OndaRock

Vai alla scheda artista