In zona Portonaccio, tra la Stazione Prenestina e Via Tiburtina, il Monk Club si trasforma per una notte in un romantico locale berlinese, di quelli avvolti in un fumo denso di sigaretta. Al crepuscolo di un martedì capitolino, sul ciglio tra l’inverno pungente e i primi tepori d’aprile, il concerto dei Bohren & der Club of Gore è come un rito collettivo, un momento intimo di malinconica condivisione sonica. In mancanza di un gruppo spalla, il pubblico riempie il locale lentamente, mentre si beve una birra con calma, in attesa dell’avvio del rito, superate da poco le 21.15.
Il gruppo originario di Mülheim an der Ruhr, geograficamente e artisticamente vicina alla Düsseldorf dei Kraftwerk, sale come un’ombra sul palco del Monk a più di trentacinque anni dai primi esperimenti più estremi, dal primo amore verso il grindcore e il doom-metal. Mentre più di un capellone in giubbino di pelle si fa strada verso il centro del locale, il live della struggente band tedesca potrebbe tranquillamente essere ascoltato con una bottiglia di vino rosso illuminata da una lampada soffusa sul tavolino di un jazz-club mitteleuropeo. Lo stesso Christoph Clöser, nascosto tra luci fredde e i lunghi capelli d’argento, ammette quanto sia interessante suonare davanti a un pubblico in piedi, con il suo inglese lento e gutturale.
Sembra così di assistere a un concerto metal, tra applausi scroscianti e i tradizionali “daje”, quando lo stesso Clöser sussurra l’inizio di “Patchouli Blue”, dal disco del 2020 che ha spezzato un silenzio durato sei anni. Dopo l’addio del batterista Thorsten Benning ormai dieci anni fa, i B&DCOG sono oggi un trio che non dimostra affatto il passare del tempo, folgoranti nel loro andamento glaciale e oscuro. Il dark-jazz (o jazz-noir) che diventa ambient; l’ambient che diventa dark-jazz in un abbandono completo di ogni velleità ritmica, per scandire il tempo musicale su un velluto blu di lynchiana memoria.
In brani come “Maximum Black”, il ritmo lento e ossessivo di sax e piano sembra uscito da un romanzo di spiriti, mentre l’esecuzione di “Karin” scivola via sinuosa in un ambient-jazz da film. Sempre in bilico tra il sardonico e una genuina meraviglia, il dialogo tra Christoph Clöser e il pubblico romano è come un sussurro nella notte, accompagnando il lirismo nero di brani come “Midnight Black Earth”.
Il concerto del trio tedesco scivola via più lungo della media, almeno a quelle degli scarsi novanta minuti a cui si attengono parecchie band di oggi, mettendo alla prova la resistenza del pubblico alle atmosfere più apocalittiche. Squarci illuminanti di sax in una versione di “Still Am Tresen” che non starebbe poi male nel catalogo del Tom Waits più notturno. Il pubblico assiste come rapito, salutando il gruppo con una calda ovazione alla fine del set.
Dalle sfuriate doom all’ultimo album, la band tedesca è ancora formidabile nelle immersioni in un mondo immaginario ad alto coefficiente cinematografico. Un modo cupo, in rovina, eppure meraviglioso.