Il Forte Antenne, incastrato nel verde, è uno di quei posti che sembrano più lontani di quanto siano davvero. Basta deviare appena dal traffico per ritrovarsi in un teatro che fa da cornice perfetta a un concerto come quello di Giorgio Poi. Platea piccola, raccolta, tutta piena. La città è lì, dietro gli alberi, ma per un’ora e mezza sembra altrove.
Giorgio Poi sale sul palco senza cerimonie. Nessuna grande apertura, nessuna intro epica. Solo lui, la band, le luci basse e quel tono che ha sempre avuto: gentile ma distaccato, come chi ti racconta qualcosa di intimo ma non troppo importante. "Aerei che sembrano stelle/ si può morire senza morire/ un grande amore di poche parole/ tutta la terra finisce in mare”… le sue frasi si incastrano una dopo l’altra come piccoli frammenti di storie non concluse. Schegge, appunto: il nuovo album viene suonato integralmente, in sequenza quasi liturgica, come un rosario laico di suoni. Ogni brano scivola nel successivo senza clamore. Non c’è bisogno di spiegare, di introdurre, di fare spettacolo: è tutto lì, nei testi, nelle pause, nel modo in cui Giorgio Poi sa tirarsi indietro e lasciare che le canzoni si prendano lo spazio. Le poche parole fuori scaletta sono quelle di rito: “grazie”, “che bello essere qui”, “questa la conoscete”. Poi, di nuovo, la musica.
Ovviamente ci sono anche le “vecchie” amate: "Vinavil", "Giorni felici", "Tubature", e "Missili" e "La musica italiana", ovvero quelle che lo hanno reso noto al grande pubblico grazie alle collaborazioni con Frah Quintale e Calcutta. La band c’è, ma non invade. A tratti sembra più una cornice che un motore. La voce è sempre davanti, nitida con i suoni che restano in secondo piano, un sottofondo morbido che accompagna senza mai spezzare. Non sarebbe strano se, a un certo punto, qualcuno si sparpagliasse nel verde, facesse altro, lasciando la musica come una colonna sonora di una scena da vivere a modo proprio. Eppure, sorprendentemente, le parole di Giorgio Poi sembrano importanti non solo da ascoltare, ma anche da ripetere. I testi di “Erica cuore ad elica”, “Non c’è vita sopra i 3000 kelvin”, “Stella” uniscono tutti i presenti in un unico canto.
Musicalmente, Giorgio Poi si muove in quello spazio sottile dove la forma leggera non significa superficialità. Da anni lo si accosta a nomi come I Cani o Mac DeMarco, per quel suo modo di mescolare melodie ovattate, venature elettroniche e scrittura intima. Ma questa sera, tra gli alberi del Forte Antenne, sembrava avvicinarsi di più a un mondo alla Kings of Convenience, o persino a certi momenti di José González per la capacità di far scorrere la musica con naturalezza apparente, come se nulla fosse davvero importante.
Il finale è tutto un crescendo emotivo: c’è spazio per la cover di “Estate”, concepita per la serie Netflix “Summertime”, che porta una ventata di luce e nostalgia; poi arriva la meravigliosa “Uomini contro insetti”, con un’apertura che sfiora il mistico e nell'incipit richiama da lontano le prime note di “E ti vengo a cercare” di Battiato. A questo punto Poi esce con la band. Ma il ritorno con il consueto bis è inevitabile… ancora qualche brano storico e in chiusura l’ultimo sigillo: “Les jeux sont faits”, dove alcuni hanno intravisto l’impronta elegante e discreta di Laurent Brancowitz dei Phoenix, che ha curato la supervisione dell’intero album.
È tutto qui, verrebbe da dire. Ma in fondo è questo il suo modo: niente fuochi d’artificio o effetti speciali. Giorgio Poi semina dettagli, immagini. Tracce leggere del suo passaggio.
Giochi di gambe
Acqua Minerale
Nelle tue piscine
Il Tuo Vestito Bianco
I Pomeriggi
Erica Cuore Ad Elica
Rococò
Non c'è vita sopra i 3000 kelvin
Solo per Gioco
Un aggettivo, un verbo, una parola
Stella
Tubature
Niente Di Strano
La musica italiana
Giorni Felici
Tutta la terra finisce in mare
Delle barche e i transatlantici
Estate (cover)
Uomini contro insetti
Encore
Schegge
Missili
Vinavil
Les jeux sont faits