Via chitarre, batterie e orpelli vintage: oggi dominano beat digitali, autotune e una narrazione che parte dal barrio e arriva dritta in cima alle classifiche. Ma, attenzione, non è solo una moda: nel caso di Morad, è una traiettoria vissuta sulla pelle. Non viene dall’America, non finge di farlo. È cresciuto nei quartieri più complicati di Barcellona, è di origine nordafricana, e canta in spagnolo. Eppure parla anche ai ragazzi delle nostre città e di Roma in particolare, a giudicare dai due sold out alla Cavea Parco della Musica, palcoscenico che raramente ospita esponenti del suo mondo.
Il pubblico è eterogeneo nelle origini, italiani, latinos, nordafricani, ma sorprendentemente uniforme nell’età: quasi tutti millennial, con qualche genitore in disparte, più osservatore che partecipe, ma comunque presente.
Sul palco, Morad tiene alto il ritmo con una scaletta ben calibrata, che alterna senza pause le hit più riconoscibili (“Normal”, “Yo no voy”, “Motorola”, “Pelele”, “Carretera”) ai brani dell’ultimo album “Reinsertado”, uscito nel 2023 tra l’entusiasmo di una fanbase che gli garantisce oltre quattordici milioni di ascoltatori mensili su Spotify.
Canzoni come “Niños Pequeños” o “Soledad” e “Fiesta”, tra le più cantate della serata, si affiancano a collaborazioni fortunate con artisti italiani, su tutte “Casablanca” con Baby Gang in cui, come da prassi, le parti degli altri cantanti scorrono in playback mentre Morad mantiene il controllo della scena.
L'artista di origini marocchine si muove da solo sul palco, seguito da un cameraman che proietta i suoi movimenti su uno schermo, in un assetto minimal che però riesce a sostenere lo show. Scenografia ridotta all’osso, ma pubblico partecipe: complice una serie di scelte che sembrano ormai far parte di un tacito manuale su come si costruisce un live nel 2025. C’è la maglia della squadra di calcio locale – mossa prevedibile ma, nella Roma delle due tifoserie, non proprio neutra – seguita da una raffica di elogi al calore del pubblico, il momento emotivo dedicato alla madre (“Mama me dice”) e diversi richiami alle proprie radici, tra cui la bandiera marocchina sventolata, una canzone dedicata al terzino dei leoni dell’Atlante (“Paris como Hakimi”) e un omaggio al “mejor delantero del mundo” Lamine Yamal.
Anche l’attualità trova spazio, con una parentesi dedicata alla Palestina, gestita con discrezione e una certa efficacia: niente slogan né proclami, solo il silenzio, e Morad che cammina sul palco con la bandiera sulle spalle.
Tutto sembra studiato per funzionare, e in effetti funziona, anche se, a tratti, affiora quella sensazione di déjà vu che oggi accompagna molti live ad alto tasso di esposizione. È il prezzo del successo nel presente: uniformare, compattare, affinare, fino a rendere l’esperienza il più accessibile possibile. E se l’obiettivo è far sentire ogni città un po’ Barcellona, Morad ci riesce benissimo.