Mentre in sala cala improvvisamente un silenzio liturgico, emozionanti note di piano riempiono un’atmosfera quasi rarefatta. Alle 19,45 di una gradevole serata di febbraio, il canto profondo di Finn Andrews apre la celestiale “Mortal Wound”, una nuova progressione da brivido lirico per i neozelandesi The Veils. Al Monk Club di via Mirri il pubblico è arrivato numeroso, anche grazie al meteo clemente e al nuovo formato dei “concerti presto”, che prevede un avvicinamento di Roma - e in generale delle abitudini del pubblico italiano - a orari più europei.
Uscito recentemente su etichetta V2, il nuovo album “Asphodels” viene presentato sulle melodie nostalgiche di “The Dream Of Life”, quasi sussurrate da Andrews seduto alle tastiere con il suo immancabile cappello da consumato songwriter. Al di là di un suono inizialmente troppo smorzato, il pubblico appare subito rapito, fortunatamente silenzioso nell’assistere a un inizio così soffuso e malinconico.
I primi sussulti arrivano con “The Ladder”, dove alla partenza minimale segue un crescendo quasi orchestrale, a rodare la band avvolta da luci fredde e fumo d’ordinanza. Su “O Fortune Teller” si accendono i primi schermi mobile, a registrare la più dolente intensità vocale, vero e proprio leit-motiv dell’ultima prova in studio del gruppo neozelandese. Un gospel scheletrico da brividi lungo la schiena, che punta all’emozione più che all’esibizione o allo sfoggio di perizia tecnica.
Sensuale e triste al punto giusto, il gruppo snocciola un soul cadenzato nella successiva “Swimming With The Crocodiles”, primo recupero del passato dal disco "Total Depravity" (2016). La patina cinematografica ammanta la sala sul ritmo da vecchio cabaret di “Birds”, che apre una melodia squarciata da melò europeo. Apprezzati da grandi registi come il compianto David Lynch, i Veils incalzano con l’incedere folkeggiante di “Not Yet”, prima di sperimentare con trame elettroniche nella robusta “Here Come The Dead”. Dal secondo album “Nux Vomica” viene scelta la marcia sentimentale “A Birthday Present”, un altro gospel dal forte impatto emozionale data la sentita partecipazione del pubblico romano.
Il concerto fila gradevole, senza particolari sbavature, pur non avendo ancora mostrato un picco degno di nota. “Asphodels” torna agli arrangiamenti minimali sull’accoppiata piano e voce liturgica, con riferimenti fin troppo evidenti ad artisti come Leonard Cohen (“Concrete After Rain”) e Nick Cave (“No Limit Of Stars”).
Se la corale “Sit Down By The Fire” riporta in auge certe coralità tribali degli Arcade Fire, la sgangherata “Jesus For The Jugular” è un’ottima filastrocca blues in odore di Tom Waits.
La band esce brevemente dopo circa un’ora di set, tornando per illuminare la figura del solo Andrews all’acustica sulla tenera “Lavinia”. Dal disco d’esordio è recuperata anche la martellante “The Tide That Left And Never Came Back”, che scatena il pubblico insieme alla marziale “Nux Vomica”.
La band neozelandese sembra ora carica e sperimenta con un sound ai limiti del glitch nella finale “Axolotl”, che chiude il concerto dopo poco meno di 90 minuti. Una partita onesta e sincera, giocata forse troppo sulla difensiva, all’italiana come piace a noi.