Quando Emidio Clementi incomincia a “recitare” le prima parole di “Atto definitivo”, la platea del Teatro Galleria Toledo di Napoli piomba, improvvisamente, in un silenzio religioso.
Avvolti in quelle luci sommesse, i Massimo Volume raccontano storie (vissute o meno) che ci riguardano un po’ tutti. Sono passati diciotto anni, da quando, in un garage di Bologna, s'interrogavano sul da farsi, sul come imbastire una “musica dove l'idea stessa di canzone si annullasse in virtù di testi liberi e suoni distorti". Anni che non sembrano volati via invano se, questa sera, le facce di quanti per niente al mondo si sarebbero persi la prima volta della band in terra partenopea, hanno un non so che di estasiato.
Nel buio, le bocche seguono le parole come in una preghiera tanto privata quando, in fondo, collettiva. Rimbaud, Emanuel Carnevali, la Karin di “Sul Viking Express” (quella che dice, prima di andarsene, “sarebbe bello se conoscessi qualcuno qui”), il mitico Rigoni di “Stagioni” (che mi abbandona in una prigione di dolcissima nostalgia), e poi il solito Leo, quello a cui chiedere, spauriti, se è davvero “questo che siamo?”, senza ricevere risposta, perché, inutile negarlo, non ci sono risposte adeguate, ma solo domande.
In circa un’ora e mezza di concerto, la band (che, oltre al basso di Clementi, schiera gli “storici” Egle Sommacal alle chitarre, Vittoria Burattini alla batteria, più il nuovo arrivato Stefano Pilia (chitarra) attraversa l’intera carriera con taglio trasversale, tra brani che suggellano un matrimonio felicissimo tra visioni oniriche e impatto strumentale (la sempre emozionantissima “La città morta”), limpidissimi esempi di poesia del quotidiano, dove le piccole cose diventano metafora di essenze più profonde (“Qualcosa sulla vita”, con tanto di coda improvvisata), e, ancora, discese ipnotiche dentro tunnel di algida paranoia (“Alessandro”), vampate di rabbia metallica (“Esercito di santi”), connubi di vertigine e trubamento ("Vedute dallo spazio") e l’urgenza di un dire-flusso-di-coscienza che si tramuta, per tutti noi, in un modo per stemperare la tensione, per immaginarci sempre più altrove (“Ronald, Thomas ed io”), dove “il tempo scorre lungo i bordi”, prima che, inevitabilmente, “cominci la polvere”.
Non è solo un concerto. E’ molto di più, almeno per il sottoscritto. E’ un modo per annullare le distanze temporali, un modo per osservare le parole farsi pura magia sonora. E poco importa se la scaletta non prevede quel gioiello di rabbia e poesia che è “Meglio di uno specchio” (dal capolavoro "Lungo i bordi").
Poi, calato virtualmente il sipario, mi infilo nel backstage dove trovo una Vittoria dall'aria molto stanca eppure disponibilissima a scambiare quattro chiacchiere. E’ felicissima: non si aspettava una platea così calorosa. Poi, dopo un Emidio sempre gentile e desideroso di ascoltare i pareri di tutti, è la volta di Egle, con cui rispolverare ricordi di una estate calda e avvolgente, nel silenzio di una Bologna sospesa come in un limbo, mentre si cucinava pasta al tonno e si ascoltavano dischi.
Nel firmarmi la copia di “Stanze” che lui stesso, allora, ebbe a regalarmi, mi fa, con aria quasi commossa: “Quanto tempo è passato?”. “Un bel po’”, gli faccio io.
Ma non importa.
Questa sera il tempo, almeno per un po’, non aveva alcun senso.