Occhialuto, spigoloso, stiloso, due note e un si bemolle fuori luogo. Una faccia squadrata e iconografica anche se non fosse stato Enzo Jannacci. Sulla copertina di "Ci Vuole Orecchio
" ci serebbe potuta essere la scritta
Elvis Costello e chi sa quante copie in più avrebbe venduto, rispetto al suo magro bottino. I capelli impomatati da una parte, e un gessato rubato dal set de Il Padrino. Guarda in camera, ma non è tanto convinto. Quasi tutte le copertine dei suoi dischi sono così. Di profilo, di tre quarti, con gli occhiali da sole. Incerto come il tempo di marzo. Merce rara, se di professione fai “l’artista”. È marzo tutto l’anno, se ti chiami Enzo Jannacci. Un depresso con troppa intelligenza, per questo mondo, uno che giustamente aveva già perso la fiducia ancor prima che gliene potesse venir fuori solo pochina. Uno sguardo disincantato, su tutto e tutti. Il
grunge, se vogliamo parlare con i suoi stessi illumina(n)ti
nonsense, quarant’anni prima del
grunge. Di Jannacci mi colpivano gli occhi. Piccoli su gote pronunciate e rosse. Occhi che non riesci a fissare, perché mentre parli guardano già altrove. Strabismo insostenibile, senza traccia di Venere. Se gli stavi a genio ti rispondeva e se ci si impegnava ti mostrava verità che atterriscono. Però lo faceva con una risata. Perché, come diceva Alberto Sordi, “Per far ride, bisogna esse seri”. Per parlarci bene, la locazione ideale era di sicuro l’osteria. Lo si vede lì, a cantare una prima versione della sua canzone "L’ombrello di mio Fratello
", nel film La Vita Agra di Carlo Lizzani del 1964, e poi la citerà tante di quelle volte che è difficile tenere il conto. Ma nell’osteria di Jannacci non c’è tempo di birra, vino, Negroni, sbagliati, americani. Nella sua osteria si
ciarla: per non sentirsi soli, per sentirsi ancora vivi, e pure per trovarsi un alibi convincente.
Accanto all’osservazione compassionevole di un’esistenza scientificamente esorcizzata nell’assurdo, tutto viene preso di mira. In un altalena di umori molto contrastanti. Raccontava così di come stesse cambiando Milano, di come stesse cambiando il mondo. Della pericolosità della televisione in un’epoca dove c’erano ancora solo due canali. Di quella volta che a Rogoredo nel ‘57 gli dissero che si sarebbe esibito al primo
Festival Italiano di Rock and Roll, che si tenne poi nel Palazzo del Ghiaccio e che costituì una svolta all’interno del panorama musicale nostrano. Raccontava storie dritte e storie storte, le
amicizie e di come gli sia venuto in mente il testo di "Natalia
", una bambina malata al cuore dentro una sala operatoria.
Sarebbe bello poterlo incontrare ancora. Per farsi raccontare pure le storie pesanti. Di come negli anni Settanta, via Milano, l’eroina sia entrata in Italia. Di come, con qualche grillo per la testa e poco amor proprio, era facilissimo finirci dentro e non uscirne più. Di come
Foto Ricordo, il suo disco del 1974, alla fine parlasse di quello e "Saltinbanchi" (“perché fare tanto casino/ tanto poi/ saltinbanchi si muore”) si riferisse, con compassionevole cinismo, a chi amasse rischiare con la propria vita e con quella degli altri. “E dalla terza fila arriva un rutto / che non sbaglia mai”.
Eppure era gentile con tutti, Jannacci, e risplendeva di una dolcezza bizzarra che oramai si fatica a leggere nei tratti somatici della gente di questo mondo qua. Se ne ricorda bene mio zio, che per qualche anno lo ha avuto come illustre condomino. Lo incontrava spesso in ascensore, vestito sempre con eleganza mai vistosa. Si toglieva gli occhiali da sole, o probabilmente da vista con le lenti oscurate, e gli porgeva il suo saluto. Mio zio allora gli rispondeva di non preoccuparsi, che gli occhiali non gli davano noia. “Ci mancherebbe, guardarsi negli occhi è importante: è una questione di rispetto”. Ecco, il rispetto. Nonostante gli appelli al
Mario che vive dentro di noi e vorrebbe solo suicidarsi. Perché saremo anche soli, ma pur sempre dovremo fare i conti con degli altri. Farlo con rispetto mi pare il minimo, soprattutto con gli
outsider. Ed è per questa svalutazione e per questo deprezzamento post-sessantottini del rispetto deriva lo stesso isolamento mediatico e artistico dell’Artista-Jannacci, dal considerarlo poco più che un cabarettista (mortificazione insensata in un Paese in cui i cantanti sembrano essere considerati tali solo dal do di petto in su) agli urli inutili dei critici che si lamentarono della sua presenza a teatro quando nel 1991 volle interpretare
Aspettando Godot di Samuel Beckett (però Capovilla che legge Pier Paolo Pasolini o Vladimir Vladimirovič Majakovskij, a seconda di come gli gira la giornata, è una manna dal cielo). La verità è che ci serviva ancora, un Enzo Jannacci - ma un Enzo Jannacci ora non c’è più. Intanto io propongo in suo onore un brindisi: alla Milano di un tempo, quella dei Luciano Lutring e dei Vincenzo Viganotti, anche loro con il senso del rispetto, per l’appunto; all’Italia che affonda, tra nani e marziani, perché non ha mai capito bene come lui che sarebbe stata una risata a seppellirci, e mai la morte.