Ci avevano detto che avremmo vinto e, sebbene ogni anno l’Italia all’Eurovision venga data per vincitrice (perlomeno da quando abbiamo ripreso a partecipare alla competizione nel 2011, dopo una pausa di 14 anni), questa volta ci avevamo creduto davvero, inutile negarlo.
“Soldi”, il pezzo che ha vinto il Festival di Sanremo quest’anno e che abbiamo quindi portato a Tel Aviv, è una delle pochissime proposte fresche e giovanili approdate sul palco dell’ESC, in grado di coniugare l’aspro racconto autobiografico incentrato sulla figura di un padre assente e meschino, con un ritmo intrigante e di facile presa, che mescola pop, R&b, trap e un filo di elettronica. L’ottima produzione di Charlie Charles e
Dardust e il particolare timbro vocalico di
Mahmood fanno il resto.
Non è un caso, infatti, che il brano sia immediatamente piaciuto all’estero e che abbia raccolto presto il plauso anche di tanti youtuber impegnati sin da febbraio in
reaction e altri video a tema Sanremo ed Eurovision Song Contest. Non solo, “Soldi” a Tel Aviv ha vinto il
Composer Award per il miglior testo ed è la prima volta che l'Italia si aggiudica questo trofeo, e risulta essere il brano ad aver totalizzato il maggior numero di punti per l'Italia nella storia dell'Eurovision (465). Mica poco.
La seconda posizione di “Soldi” rimane dunque un grandissimo trionfo per la nostra nazione che non si posizionava così bene dal 2011, quando Raphael Gualazzi portò sul palco di Düsseldorf la sua “Madness of Love”.
Vince, con un distacco di soli 27 punti dal nostro Mahmood, l’olandese Duncan Laurence con la canzone “Arcade”. Che è un po’ la copia sbiadita di
Sam Smith, ma sempre meglio di Macedonia del Nord e Svezia, entrambe eccessivamente premiate dalle giurie, la prima per via delle recenti vicende politiche che l’hanno vista coinvolta, la seconda per motivi sconosciuti, soprattutto se consideriamo che la Svezia viene ogni anno sopravvalutata dalle giurie.
Al di là dei sentimenti contrastanti dovuti alla seconda posizione di Mahmood, la serata finale dell’Eurovision Song Contest 2019, tenutasi a Tel Aviv e trasmessa in diretta su Rai 1, è stata divertente, kitsch e frizzante, come solo l’Eurofestival sa essere. Ad aprire la serata Netta, vincitrice della scorsa edizione, con il nuovo singolo “Nana Banana”, ma è bello ritrovare sul palco anche
Conchita Wurst, Måns Zelmerlöw, Eleni Foureira, Verka Serduchka, Gali Atari a rinfrescarci alcuni dei pezzi più rappresentativi degli ultimi anni di Eurovision.
La super ospite
Madonna, invece, delude un po’ le aspettative. Al di là dell’indiscutibile carisma del suo personaggio, la performance di “Like A Prayer” è stata pessima, vuoi perché cantata interamente calante dalla Ciccone, vuoi per la messa in scena col coro di monaci benedettini che nel 2019 appare un po’ superata. Va molto meglio con il secondo pezzo, “Future”, cantato insieme al rapper Quavo, il cui
sound design strizza vagamente l’occhio al raggae.
E per quanto riguarda le canzoni in gara?
Come al solito, c’è un po’ di tutto. Sonorità e outfit che ricalcano calligraficamente gli anni ‘90, i
wannabe Maroon 5 (Repubblica Ceca), i cori gospel (Svezia), fiamme, scenografie spettacolari (Australia), pezzi eurodance trainati da
beat energetici e tamarri, aspiranti popstar (Albania, Cipro), animatori da villaggio turistico (San Marino), ammiccamenti
gay-friendly, le consuete ballatone melense e melodrammatiche (Russia, Macedonia del Nord).
Sorprende un po’ il ventiduesimo posto della Spagna con il tormentone “La Venda”, che probabilmente - e sventuratamente - le radio italiane andranno a ripescare quest’estate. Non sorprende, invece, che Germania e Regno Unito si siano classificate rispettivamente terzultima e ultima, considerata la grottesca bruttezza dei loro brani. Ma probabilmente anche l'"effetto Brexit" avrà giocato la sua parte per quanto riguarda l'ultimo posto del Regno Unito, a dimostrazione del fatto che l'Eurovision sta diventando di anno in anno sempre più politicizzato. Basti ricordare la vittoria di Jamala (Ucraina) nel 2016 che, in barba alle regole della manifestazione secondo le quali non è possibile partecipare con brani di natura politica, vinse con una canzone ispirata alla deportazione dei Tatari di Crimea in Uzbekistan per conto dell'Unione Sovietica stalinista. Il tutto mentre il nostro Francesco Gabbani, favorito alla vigilia della manifestazione e amatissimo dal pubblico, veniva invece affossato dalle giurie.
Tornando al 2019, non sono mancati però
melting pot ben riusciti: è il caso dei norvegesi KEiiNO, che hanno inserito all’interno della loro “Spirit in the Sky” il tradizionale canto lappone
joik, e di Katerine Duska per la Grecia, che con la sua “Better Love” richiama talvolta
Florence + The Machine, talvolta
MARINA. Non male anche l’Azerbaijan che con Chingiz e la sua “Truth” porta in scena un pezzo pop degno di questo nome, e non si può non segnalare, infine, la dolcezza
naïf di Leonora della Danimarca, una vera e propria boccata d’aria fresca.
Ma i veri
outsider di questa edizione sono indubbiamente gli
Hatari, trio islandese che si è guadagnato il proscenio con un’esibizione a metà tra
Rammstein e
IAMX, con copiosi riferimenti BDSM, e un brano, “Hatrið mun sigra”, che attrarrà come api al miele i più sensibili a sonorità da club, EBM/aggrotech e un certo tipo di estetica morbosa e perversa.
Einar Hrafn Stefánsson, Klemens Nikulásson Hannigan e Matthías Tryggvi Haraldsson cantano un futuro distopico in cui il male ha prevalso, hanno dichiarato che il loro obiettivo è “porre fine al capitalismo neoliberista” e nei testi dei loro brani è ben visibile una nota critica contro l’ascesa dei nazionalismi populisti in Europa.
Gli islandesi riescono a conquistare la decima posizione, un ottimo risultato se consideriamo che era da quattro anni che non riusciva neanche a qualificarsi per la finale.