Il funambolo della chitarra e la "chiesa elettrica". "Jimi Hendrix Electric Church" -il documentario diretto da John McDermott in onda martedì 3 settembre alle 23 su Rai 5 - testimonia lo spettacolare concerto tenuto dal più venerato chitarrista della storia all'Atlanta Pop Festival, davanti a una folla di 300.000 spettatori, il 4 luglio del 1970.
Due mesi dopo la sua leggendaria
performance – proprio quella in cui suona l'inno nazionale degli Stati Uniti d'America in versione elettrica –
Jimi Hendrix ci lascerà, a soli 27 anni. Sulla lapide verrà fatta incidere, assieme al nome, la sagoma di quella che fu la sua chitarra-simbolo, la Fender Stratocaster.
A 54 anni da quel concerto, Rai5 propone il documentario diretto da John McDermott, che ricostruisce il festival passato alla storia come la “Woodstock del Sud” e riconosciuto come l’ultimo grande rock festival dell’era hippie. Il film contiene la
performance (in 16mm a colori) di
Jimi Hendrix nel giorno dell’Independence Day 1970, a sole dieci settimane dalla sua prematura scomparsa.
La scaletta del concerto include classici di Hendrix come “Hey Joe”, “Voodoo Child (Slight Return)”, “Purple Haze” e “Room Full Of Mirrors”, “Freedom” e “Straight Ahead”, all’epoca inedite, ma destinate a far parte del disco a cui stava lavorando quell’estate. Alle immagini storiche, attentamente restaurate, si alternano interviste a
Paul McCartney,
Steve Winwood, Rich Robinson, Kirk Hammett, Derek Trucks e Susan Tedeschi.
Jimi Hendrix, ovvero la chitarra che fece la storia del rock. Il musicista di Seattle ha completamente e irreversibilmente mutato l'approccio alla chitarra elettrica, per molto tempo lo strumento principe e incontrastato del rock (almeno fino all'avvento del sintetizzatore) e, comunque, quello che più di tutti, fin dagli inizi, ha dato a questo genere quel marchio adrenalinico e un po' selvaggio, quel
quid che lo caratterizza da ogni altra espressione musicale. Più del piano di Jerry Lee Lewis o di Richard Pennyman,
alias Little Richard (con cui Jimi Hendrix ha suonato come
sessionman per un breve periodo, tra l'altro), più dell'icona fantasma di
Elvis Presley.
Chuck Berry docet.
Con il suo strumento, Hendrix ha compiuto una rivoluzione copernicana accostabile, forse, solo alle innovazioni apportate al modo di suonare la sei corde da Charlie Christian, Django Reinhardt, Chuck Berry e, al limite,
Robert Johnson. Con Hendrix, il
feedback diventa un'arte, non più un fastidioso difetto (forse ne sanno qualcosa
Sonic Youth & C.), la distorsione, spinta ai massimi limiti, è potenza e delicatezza al contempo (il suono "duro" che oggi è infiltrato quasi ovunque, soprattutto fra certi gruppi della scena
indie, nasce qui), le linee melodiche e armoniche della chitarra elettrica si intrecciano e si fondono con naturalezza e perfezione come mai in precedenza. La valenza catartica dell'atto musicale assume con il chitarrista di Seattle un nuovo e prorompente significato.