"Ho buttato dalla finestra un disco di De Gregori". La confessione di Roberto Vecchioni a "La versione di Andrea"

18-04-2025
"Molti anni fa ho lanciato un disco di Francesco De Gregori dalla finestra, per invidia". Con questa sorprendente confessione, riportata dall’Ansa, Roberto Vecchioni ha catturato l’attenzione durante la sua partecipazione al programma radiofonico "La versione di Andrea", condotto da Andrea Delogu.
Nel corso della chiacchierata, il cantautore e scrittore milanese, oggi 81enne, ha parlato del suo rapporto con alcuni colleghi storici. Ha ricordato l’amicizia con Francesco Guccini e con Lucio Dalla, riportando con affetto una delle frasi che gli rivolgeva spesso quest’ultimo: "Roberto, sei bravo, scrivi cose bellissime… solo che non si capisce un ca**o!".

A proposito di De Gregori, Vecchioni ha raccontato un episodio emblematico: "Non ricordo se fosse 'Rimmel' o addirittura 'Bufalo Bill', ma appena l’ho ascoltato ho preso il disco e l’ho buttato giù dalla finestra. Ero un po’ fuori di testa, ai tempi capitava anche che bevessi troppo. È successo tanto tempo fa, poi ho smesso con certe follie. Ma sì, lo ammetto: l’ho fatto per invidia. Un sentimento che non dovrebbe esserci, ma quando si è giovani capita. Poi col tempo passa. In quel momento avevo realizzato che un cantautore era riuscito a creare una lingua nuova, a comunicare qualcosa che nessuno prima di lui sapeva esprimere. E mi sono chiesto: ‘Perché non ci sono arrivato io?’. Oggi, una cosa del genere non la farei mai. Amo Francesco De Gregori: è un punto di riferimento nella musica italiana, perché ne ha rivoluzionato il linguaggio".

Alla poetica di De Gregori, Vecchioni ha dedicato il saggio "Il linguaggio in canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori", dispensa dell’Università degli Studi di Torino-Dams, per il corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico 2002-2003. Secondo Vecchioni, il verseggiare del cantautore romano non insegue l’esercizio letterario fine a se stesso, l’artifizio. È “criptopopolare”, ovvero “un linguaggio apparentemente colto, esteticamente ricercato, spesso non immediato ma con lo stesso intento del ‘popolare’ di cogliere attraverso simboli, astrazioni, translitterazioni il senso dell’uomo, della vita, delle cose”. Ma fondamentale è soprattutto l’effetto che questo uso della lingua si propone. “Il linguaggio transmediale – precisa Vecchioni - non permette a chi ascolta di sentire alla sfuggita e immagazzinare una facile, riconosciuta sensazione paragonabile al proprio filtro della memoria. No. Ti incatena alla tua immensità di sensazioni, costringe la tua anima, se sta attenta, a passare da uno stimolo, da un pungolo all’altro e riconoscerti in quel che sei e fai: ricostruisce dal niente la tua persona e te la mette davanti. De Gregori non scatta una foto diretta, nella quale rivedi ad esempio un volto amato e basta. Gran cosa anche questa sì, ma limitativa. Nella sua foto il volto c’è e non c’è, o muta o cambia a seconda di come quelle foto le pieghi o le giri. [...] La parola, la figura di pensiero, la frase comunicante non è monosenso: non corrisponde a un solo frettoloso rinvio a un unico altrettanto frettoloso sentire: spazia, allarga, ti consegna una mappa, ti collega ad altre mappe vicine e lontane, non chiude il circuito, lo apre e a tuo piacimento fin che vuoi. ‘Evocare’ è il verbo esatto per questa maniera di comunicare. [...] Chi non è abituato (per cultura, assenteismo, pigrizia, noia, ignoranza) a evocare resta al palo, si confonde col già detto, gira intorno a sé e si mangia la coda. Il meccanismo dell’evocazione presenta uno sproposito di libertà; si può perfino uscire dalla canzone e andar via per fatti propri (penso a Carroll in ‘Alice’). Per saper evocare negli altri è indispensabile un gran dono naturale e la naturale inclinazione a non fermarsi mai al primo significato delle cose. Evocare negli altri è magia, magia benefica. Chi degli altri, di quelli che ascoltano, leggono, sa cogliere come in un codice, in un libro di arcani (semplici in verità) i segni su cui spaziare di fantasia sa anche cosa significa essere uomo a 360 gradi”.
Sempre secondo Vecchioni, De Gregori non fa concessioni a un lirismo meramente intellettualistico, svincolato dalla realtà. Immerge le sue canzoni nel sostrato sociale e politico. Riproduce sentimenti e situazioni in cui ognuno si può rispecchiare. Appassiona ed emoziona. È dunque secondario che lo faccia ricorrendo a immagini evocative, traslate, o persino al “non detto” piuttosto che a chiare lettere. Semmai, la difficoltà va ricercata in un utilizzo “sonico” dei versi che intreccia intimamente parola ed espressione musicale. Ancora Vecchioni: “I suoi verbi, sostantivi, aggettivi sono del tutto comprensibili, ‘mediali’, non esiste ricerca del raro o prezioso. Se mai è il modo di unirli che costituisce la grande novità perché inusitato, incalcolabile, anche se a ben leggere comunque logico. De Gregori non si preoccupa di usare iati, sfalsature tra note e sillabe o ripetizioni, se gli servono, e vede con gli occhi di un ragazzo, di un giovane, senza artifici metrici. La melodia, per quanto scarsa, qua e là nervosa, è di primaria importanza, il testo non la prevarica più del dovuto. Ognuno di questi testi letto senza musica è orfano, non basta a se stesso, come avviene invece in poesia. Infine De Gregori, a sua maniera, è chiaro, discorsivo, reale, col velo simbolico che usa qua e là non si sogna nemmeno di replicare l’incomprensibilità del mondo (Montale, Campana), ma di attenuare l’inespressività, la retoricità e la durezza di un linguaggio totalmente realistico, per cose in fondo così minime”. Insomma, non è il linguaggio a risultare oscuro, bensì spesso il significato, strettamente connesso alla circostanza per la quale è stato composto il testo.