Ci sono dischi da isola deserta e dischi da navicella spaziale. I primi puntellano la memoria e consolano il presente dei naufraghi, reali o metaforici. I secondi vengono sparati fuori dall'orbita terrestre per preservare il canone di una civiltà, ad uso e consumo di inquilini interplanetari. Ci sono anche dischi, ben pochi, che riescono ad assolvere tutti e due i compiti. "Glee", per esempio.
Tutto ha inizio nel 1994, un po' per caso e un po' per scherzo. Videomaker con ambizioni musicali, il québécois James Di Salvio si improvvisa produttore remixando una traccia del concittadino Jean Leloup. Contro ogni aspettativa, il colpo va a segno: il singolo gratta le classifiche e lui intasca un assegno da non sputarci sopra. Galvanizzato, convoca l'amico E.P. Bergen per chiedergli dritte sull'arte del djing e tra i due scocca la scintilla: nascono così i Bran Van 3000. Il bizzarro nome è un riferimento al furgone di E.P., a suo dire alimentato a "bran flakes, brännvin and brand recognition" (fiocchi di crusca, liquore scadente e riconoscimento del marchio) e la musica che bolle in pentola sarà tra le più mirabolanti del decennio. Prima, però, bisogna farsi le ossa, magari partendo dalla già testata liaison con Leloup. Di Salvio e Bergen mettono mano prima al singolo "Johnny Go" e poi all'album "Le Dôme": l'uno e l'altro sbancano le chart canadesi e i BV3 si aggiudicano un contratto con la Audiogram.
Sarebbe comodo rimanere dietro le quinte come tanti stregoni sonori, ma Di Salvio ha altre idee: dar vita a un autentico collettivo, a metà tra la crew hip-hop e la comune hippie. Arriva così a mettere insieme ben 20 musicisti, tra rapper, dj, uno stuolo di cantanti e una rock band al completo. L'humus creativo è quello di Montréal, vivace metropoli al crocevia tra Vecchio e Nuovo Mondo, di cui incamera la colorata frenesia. Non stupisce il titolo che ha in mente per il disco dei suoi sogni: "Glee", gioia. Dentro dovrà finirci tutto quello che ama - e parliamo davvero di una vagonata di roba.
Se il gancio è alquanto goffo (con una demo di tre brani vincono ex aequo il Canadian Music Week, ma vengono squalificati appena emerge che non si tratta di un gruppo "vero") il montante è da ko. Quando si parla dei Bran si parte sempre da quel fatidico primo singolo, anno domini 1997, e di solito ci si ferma lì. Piuttosto ingeneroso, a fronte di un repertorio fantasmagorico nella sua interezza, ma sarebbe ugualmente miope negare l'evidenza: "Drinking In L.A." è una delle vette della musica contemporanea.
Era dai tempi di "Microphone check one, two, what is this?" che un brano hip-hop non si apriva con la magica, insulsa spregiudicatezza di "Hi, my name is Stereo Mike". Il punto, semmai, è chiedersi se di hip-hop si possa ancora parlare. Come da vademecum del Di Salvio-pensiero, si fa prima a elencare gli abiti sulla passerella: un delay dai riflessi fantascientifici, un chitarrone che scoppia di fuzz, un rap impastato di hangover, un coro perso in chissà quale sogno, una voce graffiante e sensuale, qualche anemica goccia di piano. E che dire del testo, con quel narratore sfaccendato che pare uscito da un film di Linklater e la sua spudorata enfasi autopromozionale? C'è da perdere la testa. Nemmeno i Beastie Boys erano riusciti a portare l'interazione strumenti-campionamenti a un simile livello di perfezione. Insieme a "Loser", rimane forse l'istantanea più vivida del calderone anni 90, ideale per la missione spaziale di cui sopra.
Complice un video iconico e geniale, "Drinking In L.A." fracassa radio e televisioni. Un paio di mesi dopo arriva il resto di "Glee", per il momento solo in Canada, e l'impatto è di nuovo devastante: disco d'oro, due nomination e una statuetta ai Juno Awards (l'equivalente canadese dei Grammy), brani saccheggiati a piene mani da film e spot televisivi. Di Salvio & C. sono già un cult vivente quando, l'anno successivo, l'album viene lanciato sul mercato internazionale, non prima di alcune strategiche rettifiche: due tracce in più (che diventano così 19, sfiorando l'ora di minutaggio) e due rivisitate in funzione del pubblico anglofono ("Ceci n'est pas une chanson" si contrae nella strumentale "Une chanson", mentre "Forest", portata in dote da Leloup, viene tradotta in inglese).
E sgraniamole le altre perle del collier, incontenibile inno all'eclettismo più fantasioso, centrifugato inebriante di vibrazioni nineties. Più che un brano con un inizio e una fine (di fatto mancano tutte e due) "Gimme Sheldon" è una dimostrazione accelerata del virtuosismo di Di Salvio, intrepido collagista metà John Oswald metà DJ Shadow, vorticando tra jazz, funk, breakbeat e jungle. La differenza, oltre agli esiti, sono le fonti: i sample non li pesca da chissà quale oscuro 7'' d'epoca, ma dalle produzioni di sconosciuti dj hip-hop locali. Un vertiginoso campionamento alla seconda, in pratica, oltre che che un affettuoso omaggio alla sua amata città.
Ma Di Salvio è anche un songwriter e "Couch Surfer" tappa subito la bocca a chi voglia insinuare il contrario: giradischi e drum machine in questo caso plasmano un'indolente ballata lo-fi. E se il tono apatico evoca ancora Beck, l'umorismo buffonesco rimanda ai trucchi del vaudeville, con tanto di kazoo e theremin. Con "Problems" e "Highway To Heck" il saputello torna in cattedra, impartendo due brevi lezioni vuoi di composizione, vuoi di manipolazione: la prima suona come dei My Bloody Valentine spogliati del frastuono, la seconda è un intermezzo swingato che promette tanto e non mantiene niente.
Se la maestria di Di Salvio nel saltellare da un genere all'altro è ormai insindacabile, il nuovo traguardo consiste nel ficcarne quanti più possibile nella stessa canzone: in "Forest" coesistono tirate rap e canti di sirena trip-hop, schitarrate nu metal e amen break, noise e voci in reverse; "Rainshine" (che prende le mosse dall'inciso melodico di "Problems") allinea drammatico alternative rock e pop scanzonato degno dell'omonimo dei Blur, ma ci appiccica sopra la declamazione biascicata di uno sciamano reggae.
Anche umori e atmosfere sono in perenne squilibrio: l'elegante dub-jazz di "Carry On" e il malato noir-rap di "Afrodiziak" (intorbidata da un agguato dei Gravediggaz) calano una notte senza stelle, ma "Lucknow" è uno stagno psichedelico dai riflessi arcobaleno e la cover di "Cum On Feel The Noize" trasforma il machismo dell'originale in una freakkettonata alla Primal Scream.
La qualità della scrittura ammutolisce di nuovo chi grida al complotto degli effetti speciali: "Exactly Like Me" non sfigurerebbe nel canzoniere dei Lemonheads e "Everywhere" ha la dolcezza dei primissimi Smashing Pumpkins, tutte e due impreziosite da un leggiadro violino. Ciò detto, "Une chanson" (sample da "Perfect" dei The The, wobble acido, vibrafono e tromba da cocktail lounge) e "Old School" (becerate industrial, insipienza disco, raucedini bluesy, esagitato turntablism) lo confermano comunque fuoriclasse del taglia-e-cuci. E chi altri potrebbe dirottare la ballata celtica "Willard" in un d'n'b squisitamente chilly, se non James Di Salvio?
Non è da meno "Supermodel", difficile stabilire se sia più folk o più soul, ma se è per questo non è chiaro cosa sia in assoluto "Oblonging": non sapendo più chi interpellare, Di Salvio preferisce lasciare il microfono a un simulatore di voce, cullandolo con uno struggente Fender Rhodes. Ed è la stessa sommessa intensità a disegnare la filastrocca country di "Mama Don't Smoke", la drug song più delicata di sempre, a cui bastano una voce, una chitarra e un'armonica sbuffante. Ci vuole classe per chiudere con tanta semplicità un album in cui saltano le coordinate ogni tre per due.
Quanto avverrà da qui in avanti sarà meno che trascurabile: l'iper-prodotto e reclamizzato "Discosis" (2001) verrà ricordato più che altro per l'ultima apparizione discografica di Curtis Mayfield (la hit "Astounded") e l'orripilante copertina, mentre gli album successivi non lasceranno traccia alcuna. Tanto vale far finta di nulla e prendere questo capolavoro per ciò che di fatto è stato: una luminosissima meteora. Come ci ha insegnato John Ford, a volte è bene che la leggenda prevalga sulla realtà.
Ode alle possibilità dell'attimo fuggente, "Glee" è la colonna sonora di una festa che non intende concludersi, di un'estate sempre sul punto di spegnersi, di una nostalgia in atto prima ancora che sfumi l'ultima canzone.
Ain't no party like a Bran Van party
'Cause a Bran Van party don't stop
27/10/2024