Nei vangeli apocrifi di Canterbury, spicca senza dubbio la parabola dei Camel: originari della zona sud di Londra, i Camel non avevano nulla da spartire geograficamente con la scuola in oggetto, ma seppero suonare una musica sorprendentemente melodica e vicina alle atmosfere fiabesche e progressive dei Caravan.
Rispetto alle vicende canterburiane, la loro storia inizia un po' in ritardo nel 1972, quando al nucleo della band di supporto a Phillip Goodhand-Tait, formato da Andrew Latimer (chitarra, flauto), Doug Ferguson (basso) e Andy Ward (batteria), si aggiunge il tastierista e cantante Peter Bardens, un personaggio che aveva alle spalle un notevole curriculum come autore solista. Con il nuovo membro ancora sotto contratto per la Transatlantic, la band fa però molta fatica a emergere e, dopo il 45 giri di “Never Let Go” e la pubblicazione del primo album omonimo ("Camel", 1973), la Mca decide suo malgrado di sbarazzarsi dei Camel, che passano volentieri a un’etichetta più bendisposta alle sperimentazioni, quale era di fama la Deram.
La loro musica sfuggente e fantasiosa trova così sistemazione in "Mirage", edito a marzo del 1974 con la produzione di David Hitchcock e confezionato in una controversa copertina che riporta il marchio delle note sigarette sfumato in un miraggio (come da titolo), un'immagine burlesca, destinata però a scontrarsi con la censura per questioni legate ai copyright. Per il mercato statunitense, la Usa Record Company sostituisce quindi l'artwork con un'immagine fantasy piuttosto banale, che non rende pienamente giustizia alle ricche atmosfere melodiche del gruppo. Nel resto del mondo, invece, "Mirage" viene rilasciato come nei piani originari, forte di un contratto tra la band e la filiale Europa dell'azienda che prevede l‘uscita nelle tabaccherie di pacchettini di sigarette (da 5 pezzi) raffiguranti la cover del disco, con tanto di tracklist in primo piano. L'accordo si dimostra più remunerativo del previsto e il marchio statunitense inizia allora a dare alcuni suggerimenti assurdi alla band: comparire sulle loro pubblicità, coprire i loro amplificatori con il simbolo del cammello, fare annunci per le sigarette a tutti i loro concerti. Tuttavia, l'affare entusiasma più la Deram che i componenti del gruppo, con Bardens che arriva perfino a dichiarare sarcastico di voler cambiare il titolo di una canzone anziché in "Twenty To The Pack" (come gli viene suggerito), in un più polemico "Twenty Sticks Of Cancer". A quel punto, i Camel si rifiutano di andare oltre e i rapporti con la multinazionale del tabacco si interrompono bruscamente.
Nonostante le controversie legali, in questo secondo lavoro vanno finalmente al loro posto tutti i tasselli dello stile dei Camel: in primis, vi è la magia del flusso naturale della canzone, qualcosa di profondamente emotivo e che trova risonanza nella cassa interiore di ogni ascoltatore; questo suono maestoso, a volte perfino lenitivo, viene principalmente plasmato dall’elegante Andrew Latimer, la cui chitarra si trova spesso a dialogare con il lussureggiante organo di Peter Bardens. In secondo luogo, vi è la predisposizione genetica al "lato buono" del progressive: a differenza di molte band coeve, più inclini a esaltare l'elemento cinico e oscuro (Genesis, Van Der Graaf Generator, King Crimson), i Camel si focalizzano su atmosfere fatate e sfuggenti, optando per un linguaggio jazz-rock che trova qualche assonanza con i sopracitati Caravan, il cui risultato è una musica di elegante malinconia. Da qui l'adesione apocrifa della band alla scena di Canterbury, che ha saputo declinare il verbo progressivo in modo più leggero e spensierato, seppur sia da sottolineare come alle formazioni canterburiane manchi sia la componente hard-rock dei Camel di "Mirage", sia quella prettamente sinfonica degli album successivi.
Tra lunghi assoli, qualche occasionale momento più aggressivo e tanta classe, l‘album si apre proprio con il botto hard-prog di "Freefall" e i ricami chitarristici di Latimer, mentre su una solida sezione ritmica Bardens costruisce il ponte perfetto per il suo organo. In un primo momento si sente il vento del deserto che soffia attraverso le palme, poi l'esplosione sfocia in un alternarsi di fasi corali e momenti solisti, con la voce di Peter Bardens che andrà nel corso del disco a dividersi le parti vocali con Andrew Latimer (il quale non sarà forse il migliore cantante della scena prog, ma il suo stile vocale si adatta perfettamente a questo tipo di musica).
Con sorpresa, bisogna ricordare come Latimer non avesse suonato il flauto nel primo album e quando si ascolta l’inebriante "Supertwister" viene spontaneo chiedersi il perché; scritta da Bardens, la traccia è dedicata ai Supersister, un gruppo danese con cui i Camel si erano trovati diverse volte a condividere il palco, finendo per diventare grandi amici. Tra flauti acrobatici e tastiere imperanti, il risultato finale è una pastorale sinfonia smooth-jazz, a cui tuttavia si aggiungono diverse sfumature più audaci a mano a mano che la melodia accelera il ritmo. In particolare, l'uso multiplo del flauto dà uno spessore inedito al pezzo, anche se è doveroso ribadire come non possa esistere progressive senza una suite degna del suo nome; ecco, allora, che ne consegue la prima maratona sonora, "Nimrodel/The Procession/The White Rider", ispirata a Tolkien e alle avventure di Gandalf, che ci accompagna in un viaggio strabiliante nella Terra di Mezzo, in cui Andrew Latimer ha l'opportunità di mettere in vetrina le sue grandi abilità come chitarrista e flautista.
Mentre le prime due sezioni - "Nimrodel" e "The Procession" - fungono da preambolo, il main theme di sette minuti è dedicato al "cavaliere bianco", con alcune parti vocali molto orecchiabili, intervallate da passaggi mistici e suoni atmosferici, che spingono la suite verso mondi lontani. Ci sono incredibilmente più colpi di scena e svariati cambi di tonalità: dall’introduzione infestata dalle tastiere che si dissolvono poi in una fanfara, fino al volo pindarico del Moog, passando per la psichedelia torpida della chitarra, i brontolii del basso e le percussioni effettuate con le lattine di birra. Nonostante tutti questi segmenti dissimili, la canzone scorre piacevolmente senza intoppi e, soprattutto, senza l’indigestione post-ascolto che subentra dopo l’assunzione auricolare di molte suite del progressive.
Anche il brano successivo, la strumentale "Earthrise" - in testa al secondo lato del vinile originale - inizia con venti tempestosi a cui fanno seguito diversi passaggi che ricordano, paradossalmente, quasi più i contemporanei Deep Purple che i grandi titani del prog inglese, grazie a una folgorante gazzarra tra la chitarra e il sintetizzatore che finisce per esplodere come fuochi artificiali.
La seconda e ultima suite del disco è “Lady Fantasy", divisa in tre sezioni fuse tra loro ("Encounter", "Smiles For You" e "Lady Fantasy"), uno dei monumenti sonori più rappresentativi del progressive inglese di sempre: dagli arpeggi del synth che ricamano la trama introduttiva, all’attraente motivo di chitarra principale, ripreso più tardi per la chiusura, fino alla voce ieratica di Bardens ("Ascoltate molto attentamente/ le mie parole stanno per rivelarsi"). In mezzo a malinconie esistenziali e amori platonici, l’ascoltatore ha alla fine la sensazione di aver assistito a una epifania musicale di proporzioni divine.
Mentre l'Lp originale dura meno di 40 minuti, come spesso accade l'edizione rimasterizzata in cd è arricchita da quattro bonus-track che protraggono il tempo di esecuzione fino a ben 67 minuti. In aggiunta, troviamo tre registrazioni dal vivo del 1974 - "Super Twister", "Mystic Queen" e "Arubaluba" - e una versione alternativa di "Lady Fantasy", leggermente diversa da quella contenuta nel disco, che fornisce una resa più lenta di soli 15 secondi; si tratta di una piccola differenza che però riesce a dare perfino l'impressione di una canzone suonata in una tonalità più bassa. Qualsiasi sia la versione che abbiate davanti, nonostante lo scarso successo in patria al momento della sua uscita "Mirage" rimane uno degli album più emblematici della fucina dei Camel, capace di sfumare l'artificiosità del disco di debutto in un’atmosfera più spontanea e magniloquente, ottenuta soprattutto grazie all’introduzione del flauto nelle partiture della band. L'intero album rivela così un mondo musicale autosufficiente, dove la fantasia diviene la sola realtà possibile e la malvagità dell'uomo rimane una minaccia invisibile.
Dulcis in fundo, il mio personale consiglio: prendetevi il vostro tempo, un buon bicchiere di vino e salite mentalmente sul cammello per un viaggio avventuroso. Non ve ne pentirete. Tra l'altro, anche il celeberrimo album successivo "The Snow Goose" (1975) - un lungo opus strumentale, ispirato al libro eponimo di Paul Gallico - è assolutamente degno di essere ascoltato. Chissà, quindi, che quel gobbo quadrupede possa, come nel più bello dei miraggi, trascinarvi infine verso gli incantevoli territori dell'oca delle nevi.
29/01/2017