Catherine Wheel

Ferment

1992 (Fontana)
shoegaze

Safe on the shore I've been sleeping
Faced by the thoughts I've been keeping
To break down the door of my life
I need more texture...
Necessità di maggior consistenza e spessore. Questa è la cifra fondamentale che ha permesso ai Catherine Wheel e al loro debutto, il gioiellino shoegaze "Ferment", di finire immediatamente sotto la lente della critica specializzata agli albori degli anni Novanta. Inseguiti da Alan McGee, padre della Creation Records, ovvero qualcuno che ha contribuito attivamente alla nascita della cosiddetta "scena che celebra se stessa", inizialmente facendo da manager a degli ancora sconosciuti Jesus And Mary Chain e poi prendendo nel suo roster degli esordienti My Bloody Valentine, i Nostri scelsero di pubblicare invece sotto la longeva "antagonista" Fontana, label anch'essa devota a linee psych. Fin dalle prime avvisaglie con gli Ep "She's My Friend" e "Painful Thing", entrambi usciti nel 1991, la band di Great Yarmouth gridava shoegazing a ogni eco e riverbero, sostenuta da un cantato inafferrabile e smarrito nel fragoroso vortice di chitarre al galoppo, rigorosamente imbottite di feedback, e una grande propensione all'interiorità più tormentata e afflitta. Appariva tuttavia già evidente che i Catherine Wheel potessero avere ulteriori frecce nella loro faretra.

All'interno di "Ferment" a fare la differenza è senz'altro la voce di Rob Dickinson, cugino del ben noto cantante degli Iron Maiden Bruce (e qui è il caso di dire che buon sangue non mente), più seducente e corposa di quelle dei compagni gazer, così come l'intervento di chitarre più solide e assoli di carattere rock, con cui Brian Futter e lo stesso frontman intavolano strutture meno eteree e sfuggenti della media del genere in esame. Un maggior senso di "materialità" è riscontrabile persino nella scelta dei titoli dei brani, specie se posti a confronto con le brezze leggere degli Slowdive, i barlumi nell'oscurità seminati dai Lush o le scie di vapore dei Ride. Un ulteriore tassello fondamentale è la presenza alla produzione dell'illuminato e severo Tim Friese-Greene, colui che supportò i Talk Talk nel corso di quella che può essere ritenuta una delle evoluzioni più incredibili della storia del panorama pop.

A causa della bassa qualità dei mezzi di cui disponeva la Wilde Club e della mancanza di un produttore navigato, le tracce degli Ep suonano, seppur potenti e promettenti, piuttosto grezze; tanto che invece di shoegaze sarebbe più appropriato definirle noise-pop. Dickinson e soci erano però molto affezionati ad alcune di esse e decisero di partire proprio dalla rielaborazione del poker "I Want To Touch You", "She's My Friend", "Salt" e "Shallow" per l'assemblaggio del loro disco d'esordio. La differenza rispetto al periodo pre-Friese-Greene è enorme e indica quanto la mano di questo produttore abbia contribuito, non solo alla creazione delle leggendarie sonorità di "Ferment", ma anche alla formazione del giovane quartetto, che crebbe mostruosamente a livello di metodo.
Le influenze viaggiano tra Cure, Joy Division e Jesus And Mary Chain, verso il labile confine che unisce shoegaze, dream e noise-pop. "Ferment" risulta inoltre l'unica opera del gruppo a includere elementi di neo-psichedelia brit, che richiamano l'operato degli Stone Roses. Nell'occhio del ciclone vibrano chitarre d'antan, tra Hendrix e più in generale il rock alternativo di matrice americana (derive grunge e hard rock saranno infatti riscontrabili a tutti gli effetti in alcuni dei lavori successivi). In particolare, se riprodotto a volume considerevole - come dovrebbe essere consuetudine con i dischi shoegaze - "Ferment" ha un impatto distruttivo, ma dietro le sue sferragliate soniche è sempre possibile intravedere degli scorci melodici.

Sin dall'apertura, affidata al drumming a precipizio di "Texture", le chitarre di Dickinson e Futter ruggiscono brutalmente, bombardando i sensi dell'ascoltatore senza soluzione di continuità. Quando le pennate non si accaniscono sulle corde, sembra che tale muro di suono si sbricioli, generando un pulviscolo malinconico in cui Dickinson può far riecheggiare le sue ansie, la rabbia e la paura. Un senso di schiacciamento dove i versi paiono oscillare tra la sfera sentimentale e velati riferimenti al mondo delle droghe.
I tre singoli del disco - "Black Metallic", il volo della conclusiva "Balloon" e "I Want To Touch You" - fecero accrescere la visibilità della band in Uk, dove venne subito riconosciuta come una pietra angolare della scena. Ma furono anche una spinta decisiva negli Stati Uniti, dove "Black Metallic" venne trasmessa a ripetizione su Mtv e dove il gruppo avrebbe intrapreso un trionfale tour lungo un anno. Nonostante un suono tagliente e granuloso corredato da imponenti riff di memoria zeppeliniana, "I Want To Touch You" ha una melodia fenomenale e un refrain che trasuda una sensualità palpabile; mentre i sette minuti dell'oscuro e lungo travaglio di chitarre di "Black Metallic", grazie a una sezione centrale dove atmosfera e tormento vengono intrecciati e fatti strisciare prima dell'esplosione finale, erano destinati sin da subito a divenire lo zenith delle loro performance. Qualche anno fa Pitchfork, nel suo speciale sullo shoegaze, avrebbe definito proprio quest'ultima la "Stairway To Heaven" del genere.

Si fanno ricordare volentieri anche i vezzi psichedelici progressivamente caricati di "She's My Friend", l'urgenza di "Shallow" e i ritmi concentrici e la coda in dissolvenza di "Salt". Il brano dove la mano di Friese-Greene è tuttavia più evidente è senza dubbio la title track. Le chitarre grondano note alte e stridenti, e la batteria, solitamente percossa da Neil Sims con impetuosa crudeltà, è qui spazzolata e coperta di polvere. Sembra di trovarsi in uno degli acquerelli di "Laughing Stock", ma il pericolo è in agguato: la mesta quiete disegnata dagli strumenti viene prontamente spazzata via, squarciata da riff assassini che covavano sotto le ceneri. Ancora più particolari e riusciti sono gli interventi chitarristici di "Flowers To Hide", dove le corde delle Fender vengono fatte ronzare a supporto dei sing-along, e della più pacata "Indigo Is Blue", introdotta da un tunnel di rumore bianco, e le cui strofe si affiancano maggiormente all'operato dei colleghi Slowdive e Lush.

Alcuni capitoli di "Ferment" levano davvero il fiato, ma a renderlo un'opera imprescindibile sono la sua compattezza e il fatto che ogni canzone in esso contenuta sia un mattoncino insostituibile, impossibile da rimuovere senza inficiare le fondamenta e il risultato finale. Insieme a "Nowhere" e "Loveless", rappresenta la quintessenza dello shoegaze ed è un ascolto praticamente obbligato per un neofita che desideri capire davvero cosa sia il genere.
L'irrefrenabile voglia di esplorare nuovi territori sonori, che i Catherine Wheel hanno mostrato quasi a ogni nuova uscita, ne renderanno intrigante e imperdibile anche il resto della carriera, in particolare il successivo "Chrome", album indicato da molti come vetta assoluta, in alternativa al debut. Una sorta di compromesso tra le varie sfaccettature della band del Norfolk, caratterizzato da chitarre ferrose e un gusto alt-rock made in Usa (saranno infatti tra coloro che raccoglieranno più consensi oltreoceano, insieme agli Swervedriver), senza il quale, a detta dei gruppi interessati, progetti come Death Cab For Cutie e Interpol non sarebbero mai esistiti.

06/10/2024

Tracklist

  1. Texture
  2. I Want to Touch You
  3. Black Metallic
  4. Indigo Is Blue
  5. She's My Friend
  6. Shallow
  7. Ferment
  8. Flower to Hide
  9. Tumbledown
  10. Bill and Ben
  11. Salt
  12. Balloon


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