Safe on the shore I've been sleeping
Faced by the thoughts I've been keeping
To break down the door of my life
I need more texture...
Necessità di maggior consistenza e spessore. Questa è la cifra fondamentale che ha permesso ai
Catherine Wheel e al loro debutto, il gioiellino
shoegaze "Ferment", di finire immediatamente sotto la lente della critica specializzata agli albori degli anni
Novanta. Inseguiti da Alan McGee, padre della Creation Records, ovvero qualcuno che ha contribuito attivamente alla nascita della cosiddetta "scena che celebra se stessa", inizialmente facendo da
manager a degli ancora sconosciuti
Jesus And Mary Chain e poi prendendo nel suo
roster degli esordienti
My Bloody Valentine, i Nostri scelsero di pubblicare invece sotto la longeva "antagonista" Fontana,
label anch'essa devota a linee
psych. Fin dalle prime avvisaglie con gli Ep "She's My Friend" e "Painful Thing", entrambi usciti nel 1991, la band di Great Yarmouth gridava
shoegazing a ogni eco e riverbero, sostenuta da un cantato inafferrabile e smarrito nel fragoroso vortice di chitarre al galoppo, rigorosamente imbottite di
feedback, e una grande propensione all'interiorità più tormentata e afflitta. Appariva tuttavia già evidente che i Catherine Wheel potessero avere ulteriori frecce nella loro faretra.
All'interno di "Ferment" a fare la differenza è senz'altro la voce di Rob Dickinson, cugino del ben noto cantante degli
Iron Maiden Bruce (e qui è il caso di dire che buon sangue non mente), più seducente e corposa di quelle dei compagni
gazer, così come l'intervento di chitarre più solide e assoli di carattere rock, con cui Brian Futter e lo stesso
frontman intavolano strutture meno eteree e sfuggenti della media del genere in esame. Un maggior senso di "materialità" è riscontrabile persino nella scelta dei titoli dei brani, specie se posti a confronto con le brezze leggere degli
Slowdive, i barlumi nell'oscurità seminati dai
Lush o le scie di vapore dei
Ride. Un ulteriore tassello fondamentale è la presenza alla produzione dell'illuminato e severo Tim Friese-Greene, colui che supportò i
Talk Talk nel corso di quella che può essere ritenuta una delle evoluzioni più incredibili della storia del panorama pop.
A causa della bassa qualità dei mezzi di cui disponeva la Wilde Club e della mancanza di un produttore navigato, le tracce degli Ep suonano, seppur potenti e promettenti, piuttosto grezze; tanto che invece di
shoegaze sarebbe più appropriato definirle noise-pop. Dickinson e soci erano però molto affezionati ad alcune di esse e decisero di partire proprio dalla rielaborazione del poker "I Want To Touch You", "She's My Friend", "Salt" e "Shallow" per l'assemblaggio del loro disco d'esordio. La differenza rispetto al periodo pre-Friese-Greene è enorme e indica quanto la mano di questo produttore abbia contribuito, non solo alla creazione delle leggendarie sonorità di "Ferment", ma anche alla formazione del giovane quartetto, che crebbe mostruosamente a livello di metodo.
Le influenze viaggiano tra
Cure,
Joy Division e
Jesus And Mary Chain, verso il labile confine che unisce shoegaze,
dream e noise-pop. "Ferment" risulta inoltre l'unica opera del gruppo a includere elementi di neo-
psichedelia brit, che richiamano l'operato degli
Stone Roses. Nell'occhio del ciclone vibrano chitarre
d'antan, tra
Hendrix e più in generale il rock alternativo di matrice americana (derive
grunge e
hard rock saranno infatti riscontrabili a tutti gli effetti in alcuni dei lavori successivi). In particolare, se riprodotto a volume considerevole - come dovrebbe essere consuetudine con i dischi shoegaze - "Ferment" ha un impatto distruttivo, ma dietro le sue sferragliate soniche è sempre possibile intravedere degli scorci melodici.
Sin dall'apertura, affidata al
drumming a precipizio di "Texture", le chitarre di Dickinson e Futter ruggiscono brutalmente, bombardando i sensi dell'ascoltatore senza soluzione di continuità. Quando le pennate non si accaniscono sulle corde, sembra che tale muro di suono si sbricioli, generando un pulviscolo malinconico in cui Dickinson può far riecheggiare le sue ansie, la rabbia e la paura. Un senso di schiacciamento dove i versi paiono oscillare tra la sfera sentimentale e velati riferimenti al mondo delle droghe.
I tre singoli del disco - "Black Metallic", il volo della conclusiva "Balloon" e "I Want To Touch You" - fecero accrescere la visibilità della band in Uk, dove venne subito riconosciuta come una pietra angolare della scena. Ma furono anche una spinta decisiva negli Stati Uniti, dove "Black Metallic" venne trasmessa a ripetizione su Mtv e dove il gruppo avrebbe intrapreso un trionfale tour lungo un anno. Nonostante un suono tagliente e granuloso corredato da imponenti
riff di memoria
zeppeliniana, "I Want To Touch You" ha una melodia fenomenale e un
refrain che trasuda una sensualità palpabile; mentre i sette minuti dell'oscuro e lungo travaglio di chitarre di "Black Metallic", grazie a una sezione centrale dove atmosfera e tormento vengono intrecciati e fatti strisciare prima dell'esplosione finale, erano destinati sin da subito a divenire lo
zenith delle loro
performance. Qualche anno fa Pitchfork, nel suo speciale sullo shoegaze, avrebbe definito proprio quest'ultima la "
Stairway To Heaven" del genere.
Si fanno ricordare volentieri anche i vezzi psichedelici progressivamente caricati di "She's My Friend", l'urgenza di "Shallow" e i ritmi concentrici e la coda in dissolvenza di "Salt". Il brano dove la mano di Friese-Greene è tuttavia più evidente è senza dubbio la
title track. Le chitarre grondano note alte e stridenti, e la batteria, solitamente percossa da Neil Sims con impetuosa crudeltà, è qui spazzolata e coperta di polvere. Sembra di trovarsi in uno degli acquerelli di "
Laughing Stock", ma il pericolo è in agguato: la mesta quiete disegnata dagli strumenti viene prontamente spazzata via, squarciata da
riff assassini che covavano sotto le ceneri. Ancora più particolari e riusciti sono gli interventi chitarristici di "Flowers To Hide", dove le corde delle Fender vengono fatte ronzare a supporto dei
sing-along, e della più pacata "Indigo Is Blue", introdotta da un tunnel di rumore bianco, e le cui strofe si affiancano maggiormente all'operato dei colleghi Slowdive e Lush.
Alcuni capitoli di "Ferment" levano davvero il fiato, ma a renderlo un'opera imprescindibile sono la sua compattezza e il fatto che ogni canzone in esso contenuta sia un mattoncino insostituibile, impossibile da rimuovere senza inficiare le fondamenta e il risultato finale. Insieme a "
Nowhere" e "
Loveless", rappresenta la quintessenza dello
shoegaze ed è un ascolto praticamente obbligato per un neofita che desideri capire davvero cosa sia il genere.
L'irrefrenabile voglia di esplorare nuovi territori sonori, che i Catherine Wheel hanno mostrato quasi a ogni nuova uscita, ne renderanno intrigante e imperdibile anche il resto della carriera, in particolare il successivo "Chrome", album indicato da molti come vetta assoluta, in alternativa al
debut. Una sorta di compromesso tra le varie sfaccettature della band del Norfolk, caratterizzato da chitarre ferrose e un gusto alt-rock
made in Usa (saranno infatti tra coloro che raccoglieranno più consensi oltreoceano, insieme agli
Swervedriver), senza il quale, a detta dei gruppi interessati, progetti come
Death Cab For Cutie e
Interpol non sarebbero mai esistiti.
06/10/2024