FUORI
Come un'anguilla che scivola e si dimena, sfuggendo a ogni tentativo di controllo/catalogazione, così "My Life In The Bush Of Ghosts" dà un'impressione straniante ai primi ascolti, per via della messe di spunti e stimoli che pian piano si accumulano nella mente dell'ascoltatore, che sconcertano e destabilizzano per il loro contrasto. È d'altronde arduo descrivere con semplicità questo disco: lo si potrebbe definire, ad esempio, uno dei parti più riusciti di una stagione irripetibile della storia della musica popolare grossolanamente chiamata "rock", nella fattispecie del post-punk, a sua volta termine generico e multisfaccettato. Oppure un tentativo ardito e pure presuntuoso di creare una musica "nuova" che raccolga gli stimoli delle altre musiche, quelle del terzo mondo, e li mescoli con suggestioni e frammenti di suoni più conosciuti, al fine di realizzare qualcos'altro, in quello che è un puro processo di creazione. Ancora, una delle manifestazioni più compiute e definitive del nuovo corso 80, l'irrompere del post-moderno, il frullìo di tecniche stili e stilemi, il suono tribale e funky sterilizzato e passato sotto una volta di vetro e acciaio, una realizzazione in musica utopistica ma non ingenua del Villaggio Globale profetizzato da Marshall McLuhan, e così via.
Sicuramente è il frutto più maturo, il massimo sforzo raggiungibile e raggiunto dall'unione di due menti colte, sfavillanti di intelligenza, innamorate dei suoni del mondo, che giocano con concetti, riflessi pavloviani, ritmi e armonie trattati e rivoltati come un calzino. Brian Eno e David Byrne arriveranno stremati al termine del loro percorso insieme, ma con due opere miracolosamente simili eppur distantissime, due modi differenti di applicare la concettualità propria dell'avanguardia alla canzone rock. La prima è il celebrato "Remain In Light", probabilmente il massimo lascito dei Talking Heads; la seconda è questo misterioso disco, che sinuoso si infila per sentieri sconosciuti, ma non perché non ci fossero stati precedenti esempi di trattamento voci o suggestioni etniche, da John Cage agli esperimenti di Holger Czukay (come ben esplicitato nel libretto accorpato all'edizione 2006 del disco), quanto per la fusione di così tante intuizioni in un'unica, sfolgorante opera.
Il percorso di avvicinamento di Brian Eno e David Byrne nei confronti delle altre musiche è stato graduale. Il primo aveva già in essere la collaborazione con Jon Hassell nei suoi lavori sulla Fourth World Music, evocazioni scintillanti di un paradiso terrestre, e insieme allo stesso Byrne aveva già esplorato in maniera compiuta la ricchezza del ritmo tribale già in "Fear Of Music", l'album del 1979 dei Talking Heads; lì si trova infatti "I Zimbra", trascinante tribal-funk innervato dalla voce-staffile di Byrne che declama una poesia dadaista di Hugo Ball.
Dopo quel lavoro eccellente, e il tour che ne era seguito, i tre (Hassell compreso) si erano presi una pausa, durante la quale si erano immersi nell'ascolto di lavori allora poco conosciuti, raccolte musicali provenienti soprattutto dall'Africa e dal Medio Oriente. Furono poste in quel periodo le basi per un disco che suonasse come un documento etnografico testimone di una cultura inventata, con tanto di background specifico che desse unità all'insieme.
Successivamente, perso per strada il trombettista, il discorso si evolvette, anche perché contemporaneamente l'attenzione si era spostata con eguale spirito verso certe bizzarre espressioni della Deep America, ovvero trasmissioni radio e tv a base di politica e religione, che trasmettevano talvolta un entusiasmo quasi mistico e un senso del ritmo impensabile; oscuri predicatori, rissosi oratori ed evangelisti dalla voce squillante furono pazientemente registrati e si pensò di usarli come voci narranti del nuovo mondo, decontestualizzati e scansionati come fonte timbrica e ritmica. Attorno a questi e ad accurate selezioni vocali da dischi africani e mediorientali, si realizzarono musiche che fossero una colonna sonora talvolta consonante, talaltra complementare, se non addirittura in forte contrasto con la leading voice.
Il termine voce guida non è usato a caso: si parla infatti del centro del complesso discorso intrapreso dai due, che sin da subito vollero dare una connotazione precisa al progetto decidendo di non usare il loro canto. Infatti l'ascoltatore associa a quelle voci utilizzate determinate caratteristiche proprie di un ambiente sociale preciso, sono input ben conosciuti e metabolizzati. In questo caso avviene uno stravolgimento, una presa di distanza da quelle parole cantate, salmodiate, urlate, declamate, presentate in tutto il loro splendore di registrazioni sul campo, con tanto di fruscii, distorsioni e quant'altro, voci introdotte in altri contesti che ne azzerano il significato e costringono a ripensarle, a considerarle per altri aspetti; è ciò che accade in questo disco.
Lo splendido titolo è solo l'ennesimo tocco di genio nel progetto: "La mia vita nel bosco degli spettri" è il nome di una novella degli anni 50 dello scrittore sudafricano Amos Tutuola, che smembrava e ricomponeva in una sorta di slang estatico la lingua per meglio descrivere le peripezie di un bambino in un bosco abitato da oscure presenze. Eno e Byrne non avevano letto il racconto, ma il titolo sembrò perfetto per dare un nome al loro work in progress: cos'altro erano quelle voci registrate ed estrapolate, catturate dall'etere, strappate alla loro vita in vinile, se non percezioni unisensoriali che pian piano si diffondevano ovunque, esalazioni che non presentavano un corpo da toccare, o altri sensi da esperire?
Nel 1980 il disco era ormai pronto, ma sarebbe rimasto fermo per mesi, in quanto i parenti di una ragazza nel frattempo deceduta e la cui voce era stata utilizzata si erano opposti all'utilizzo della registrazione; ancora, il fratellastro "Remain in Light" era terminato e la casa discografica voleva dargli precedenza. Il tutto con grande scorno dei due, soprattutto perché nelle loro intenzioni "My Life…" sarebbe dovuto uscire prima, in omaggio a un discorso ben preciso sull'evoluzione della proposta musicale, loro e dei Talking Heads. Alla fine fu pubblicato nel febbraio del 1981.
DENTRO
Una caratteristica che si riscontra in questo disco è il suo carattere di confine. "My Life In The Bush Of Ghosts" si muove a vari livelli lungo un crinale tra mondi apparentemente opposti: Oriente e Occidente (anche se, come detto, i contributi sono alquanto circoscritti), vena popular e spinte avanguardistico-sperimentali (sia per quanto riguarda il risultato finale, che per il background dei due artisti coinvolti), fredda geometria urbana (evidente in alcune partiture di chitarra e synth) e selvaggio tribalismo... Un'altra peculiarità è che qui sembra mancare l'urgenza espressiva tipica del rock 'n' roll, più che in profondità emozionali ci si muove semmai su piani orizzontali, si stimola mente e spirito con un'inesausta intersecazione di simboli, elaborazioni di pezzi singoli di concetto mescolati incessantemente per trovare nuove direzioni, altri significati, differenti connessioni auditive. E al termine si resta con un senso di insoddisfazione, di impossibilità nel riuscire a svelare tutti i segreti e i meccanismi, che si cerca di colmare a furia di ascolti.
In sintesi, si è partiti dalla registrazione di voci recuperate da vari posti (Medio Oriente, Africa, Stati Uniti), appartenenti a cantanti pop, urlatori reazionari da talk show, predicatori ed evangelisti dai toni messianici e/o esaltati, persino un esorcista, e si è provveduto a cucir loro attorno dei brani musicali insieme a ospiti di grande livello quali Bill Laswell, Robert Fripp, Busta Jones etc., che suonano sia strumenti tradizionali (basso, chitarra, tastiere etc), sia founding objects (come nel caso di molte percussioni che si odono nel disco).
Ogni brano è basato su una struttura ritmico/armonica reiterata, tale che potrebbe avere durata indefinita; si è scelto invece un taglio da tre minuti circa, quello della canzone pop, una soluzione che consente una maggiore fruibilità e al tempo stesso rende ogni pezzo una miniatura sonora, ricchissima nella sua brevità e apparente linearità. La chiave d'accesso sta nel ritmo, che guida la prima parte del disco, e nelle melodie ambientali che invece la fanno da padrone nel resto, ovviamente non così rigidamente. Infatti si susseguono di volta in volta differenti modalità di incastro tra una direzione e l'altra, cosicché il prodotto finale ha un'evidente organicità, nonostante i diversi influssi che si muovono al suo interno.
Detto ciò, l'ascolto si rivela denso, piacevole, e sovente entusiasma. Come nel caso di "Regiment", vero e proprio archetipo di tutto l'etno-pop a venire, con il synth di Eno che evoca il simun, il vento del deserto, e le voci ululanti (già, paiono proprio spettri) a scurire il tono generale; il brano è retto dai vocalizzi melodiosi carpiti alla cantante libanese Dunya Yusin, ed è splendido nel riaffermare l'idea base di integrazione/contrasto tra la melodia mediorientale e l'ordinata ritmica funky, con il basso di Busta Jones in grande evidenza. La stessa voce gorgheggia in un altro brano, "The Carrier", con la musica che si avvolge in volute sognanti, punteggiate dal basso stick e dai lamenti incorporei che soffiano sul fuoco.
Se invece si provano a mischiare carte su carte, il risultato è quella creatura di Frankenstein che risponde al nome di "Mea Culpa": una fitta griglia di voci che si intersecano e si scontrano in continuazione fanno spazio a un loop tribale continuo e ottundente, un mantra ipnotico che potrebbe appunto durare indefinitamente, con l'inserto della voce cupa che più che declamare biascica oscure minacce: fa pensare indifferentemente a un consesso di stregoni africani a Central Park oppure al South Bronx teletrasportato in mezzo alla savana.
La prima parte è una sorpresa continua, che si apre con l'inquietante "America Is Waiting", tutta spigoli e sussulti di batteria, chitarra e lamenti di tastiera dagli aspri bagliori metallici, la voce "cucita" e "incollata" (un intervento di matrice politica zona pancia o peggio), che sfuma in un delirio di singulti, in contrasto con il pattern ritmico che procede incessante. E che dire di "Help Me Somebody", brano frenetico e invasato, sublime abito di poliritmi e schizzi di percussioni a coprire sistematici ogni vuoto (un capolavoro di produzione), il tutto drappeggiato attorno al predicatore che pare un Little Richard in acido, con il plus di perfidia nell'estrapolare brandelli di frasi che frantumano la granitica sicumera propria dei sermoni televisivi, a partire dal titolo ("Mi aiuti qualcuno!"). Già, perché nonostante il clima apparentemente distaccato, su tutto il disco scorre sotterraneo un umore nero e pessimista, come uno sguardo colmo di foschi presagi sugli Usa che entravano nell'era Reagan, così carica di chiusura mentale e di manicheismi.
Non ci sono proclami evidenti, solo un forzare gli eventi (musicali) perché mostrino quella faccia ghignante e ben poco consolatoria. Come accade in "The Jezebel Spirit", registrazione di un reale esorcismo, cui spetta però una colonna sonora saltellante e irridente, aperta da una risata beffarda, che si permette di usare come scansione ritmica gli ansiti della poveraccia oggetto dell'atto, incalzata dalla pesante parlata yankee.
Apparentemente meno incisiva, la seconda parte del disco rallenta i ritmi e dilata le atmosfere, che sornione accompagnano intarsi di frasi sconnesse che s'aprono in estatiche odi allo Spirito ("Moonlight In Glory"). "Very Very Hungry" è un curioso esperimento di riproduzione in vitro di una notte nella giungla, la cui peculiarità è la voce spezzettata in poche sillabe; "Come With Us" raggela la visione con una voce (l'America più bigotta e oltranzista) che pare sì davvero tolta da un oltreconfine, ma è solo la penultima stazione prima di un finale più sereno, con l'ingresso a passi felpati nella cattedrale di suoni che risponde al nome di "Mountain Of Needles", dove si sta in rispettoso silenzio dinanzi alle svettanti pennate di synth.
ATTORNO
Se la fortuna critica di "My Life In The Bush Of Ghosts" è stata probabilmente inferiore a "Remain In Light", anche per via del suo maggior tasso di cerebralità, la sua influenza per le musiche successive, anche solo a livello di pionierismo, è stata elevatissima: oltre a costituire un punto di svolta per le tecniche di produzione, qui meravigliosamente artigianali, poi saccheggiate a destra e a manca al tempo del sample digitale, è stato molto importante per gli sviluppi dell'hip-hop, delle derive etno-pop e in generale delle musiche che si cibano di campionamenti. Molti sono stati i suoi beneficiari, dai Public Enemy sino al Moby di "Play", disco multimilionario che rende più pop (e banale, diciamolo) l'idea dell'accostamento apparentemente incongruo tra una voce campionata (blues, nel caso di Moby) e una musica che va in direzioni differenti.
Forse un erede diretto, magari degenere ma curato con la stessa maniacalità, può essere reputato il celebrato "Endtroducing" di DJ Shadow, ovvero un bianco innamorato della cultura nera (…) che reinventa l'hip-hop con uno straordinario tour de force di cut&paste, ricreando da centinaia e centinaia di sample da vinile dei brani perfettamente compiuti, eccezionalmente validi e "vivi", un esempio raro di rinnovamento nella tradizione.
Le varie edizioni del disco a partire dalla sua uscita hanno mantenuto pressappoco lo stesso impianto, a parte una significativa eccezione, quale l'omissione del brano "Qu'ran"; questo pezzo, basato sul salmodiare di canti coranici, era inserito nella tracklist originaria ed è stato poi eliminato (l'avrebbe sostituito "Very Very Hungry") dopo la veemente protesta di un'organizzazione islamica inglese, in quanto considerato blasfemo. Anche in questo caso si potrebbe parlare di preveggenza, certo involontaria e tristemente attuale. Piuttosto, l'edizione 2006, quella enhanced, oltre a ben sette brani aggiuntivi che però poco o nulla aggiungono alla resa finale (ma almeno "Pitch To Voltage" merita l'ascolto appassionato), presenta anche alcune modifiche pesanti in fase di rimasterizzazione per certi brani: "Mea Culpa", allungata di oltre un minuto, l'aggiunta di voci afro in "The Carrier", un differente mixaggio per "Regiment" e così via.
Questa procedura suggerisce riflessioni certo affascinanti, legate alla percezione di un'opera nel corso degli anni, e alla volontà di aggiornarla anziché lasciarla così come era uscita. In questa attualità di forte frammentazione e rimescolamento, il processo sembra effettivamente "normale", ma lascia un poco perplessi pensando per esempio a chi ha conosciuto allora il disco, e se lo ritrova con sfumature differenti; è giusto o no?
La questione sembra aperta e legata a sentimenti di natura personale, a seconda che sia disposti o meno ad accettare il fatto; per fortuna questo non pregiudica il valore del disco, è il caso di dirlo, sia in questa forma che in quella originaria del 1981.
Chi scrive ricorda di aver letto anni fa una recensione entusiastica su "My Life In The Bush Of Ghosts" che si concludeva pressappoco con queste parole: "Uno dei più grandi dischi mai usciti".
Generalmente tali giudizi eccedono in sensazionalismo e sono poco utili, ma ogni tanto, all'ennesimo riascolto di questo masterpiece, qualche rifrazione obliqua delle sue innumerevoli pieghe scintillanti fa pensare che quella frase non sia poi così insensata.
Nota: le fonti principali utilizzate per la stesura di questa recensione sono state: per le scalette delle varie edizioni il sito discogs.com, mentre per le notizie attorno al disco si sono rivelati molto utili sia il libro di Simon Reynolds "Rip It Up and Start Again" (edito in Italia con il nome "Post Punk"), sia il corposo libretto a cura di mr "Ocean of Sound" David Toop allegato all'edizione 2006 del cd…oltre a mille altre fonti (riviste musicali, recensioni sul web e quant'altro) il cui ricordo è talmente sedimentato dal tempo da renderle indistinguibili.
18/12/2007