Da giovane, come ricorderà una delle sue prime ragazze, Wayne Coyne assomigliava a un incrocio tra Leif Garrett e Peter Frampton. Era, insomma, quello che si dice un bel ragazzo. Ma Wayne era anche un tipo di grande personalità, uno che aveva sempre la risposta pronta e che nutriva una grande passione per il disegno, la pittura e soprattutto la musica. Le prime non le abbandonerà mai davvero, ma sarà la musica a dargli un futuro. Quando riuscì a mettere insieme una band, dopo aver imparato a suonare la chitarra grazie a una dedizione testarda e dopo essere sceso a patti con la solitudine (“la cosa più noiosa di tutte”, amava dire), non gli fu difficile trovare un locale in quel di Oklahoma City che gli desse la possibilità di esibirsi e, così, la prima cosa che fece fu disegnare dei volantini stravaganti per pubblicizzare l’evento, affidandosi a dei personaggi chiaramente ispirati a quelli creati da Robert Crumb e annunciando che, di lì a qualche giorno di quel febbraio 1983, avrebbe fatto il suo esordio la “band più audace dell’Oklahoma”, così aveva scritto, senza timore alcuno, precisando che il tutto sarebbe stato "totally free".
Ora, all'inizio degli anni Ottanta, Oklahoma City, a mezz’ora di macchina da Norman, la città in cui Wayne e famiglia si erano trasferiti dopo aver lasciato la natìa Pittsburgh, non era certo il posto migliore per fare musica rock, con numerose formazioni la cui unica ambizione era quella di suonare cover di country e blues-rock, e altre che invece prediligevano il rockabilly, che di solito si suonava al Bowery, il locale più cool della città. Certo, non mancavano appassionati di new wave e hardcore, alcuni dei quali avevano anche deciso di provarci in prima persona, ma nel complesso, è bene ribadirlo, quel posto non era esattamente New York o Los Angeles. E poi Wayne era un tipo poco incline a chiudersi in un solo recinto, ma amava sia l’hardcore che il rock classico, senza vietarsi il gusto di assaporare a fondo la psichedelia, non solo quella degli amati Pink Floyd, ma finanche la più oltranzista e avventurosa. Insomma, quell'incrocio tra Leif Garrett e Peter Frampton “voleva sperimentare”, perché nel suo mondo non esistevano steccati tra i generi: “Per me, è tutta musica. Non mi interessa da dove viene". Che, a conti fatti, era quello che il nostro aveva in mente quando pensava al vero “spirito del punk”, laddove, invece, pensando alla psichedelia, gli veniva facile confrontarsi con quella libertà di guardare innanzitutto al suono, più che agli strumenti con cui produrlo: “È la libertà di ‘non ci importa, siamo qui solo per fare suoni. Non ci importa se ciò si ottiene con tamburi, computer, animali o altro'”.
Perciò, lasciò perdere la sua prima band, fatta di ragazzi interessati solo a suonare le solite cover di classic-rock e si mise a fare comunella con il bassista Michael Lee Ivins, uno che aveva già alle spalle una vita piuttosto avventurosa, a cominciare dal fatto di essere stato in Vietnam al seguito della famiglia e proprio quando, ci teneva a precisare, “la merda era sul punto di colpire il ventilatore”.
A completare la prima formazione dei Flaming Lips (questo il nome che Wayne volle per la sua band, forse perché aveva in mente un non meglio identificato film porno, un oscuro riferimento alla droga o forse perché un giorno aveva sognato la Vergine Maria mentre gli dava un bacio sul sedile posteriore di un'auto...), c’erano il fratello di Wayne, Mark, alla voce e Dave Kostka alla batteria e fu con questa line-up che debuttarono dal vivo. Solo che una sera Kostka si rifiutò di suonare in un locale di travestiti e allora fu rimpiazzato da Richard English, che proprio all’epoca aveva cominciato ad approfondire la produzione di Beatles e Who e questo andò molto a genio a Wayne, soprattutto perché aveva preso gli Who come modello, dunque sentiva di essere un novello Pete Townshend e pensava che il fratello Mark potesse reggere nel ruolo di Roger Daltrey. English, invece, poteva tranquillamente immaginarsi nelle vesti di Keith Moon, dato che proprio al grande e indimenticato batterista inglese si era ispirato per definire uno stile agile e frenetico.
Registrato un primo, omonimo Ep nel 1984, caratterizzato da un sound garage-psichedelico ancora infestato dai fantasmi del post-punk, la band suonò in giro con più frequenza, trasformando i suoi spettacoli in veri e propri assalti sensoriali, in cui una macchina per la nebbia e le bolle, delle luci stroboscopiche e alcune sfere intarsiate di specchi la facevano da padrone (se ne occupava Ivins, tramite un congegno che aveva piazzato vicino al suo amplificatore). Quella tensione tra l’essere, sostanzialmente, dei bravi ragazzi di provincia, finanche un po’ imbranati, e il desiderio di apparire in pubblico, cercando di lasciare un segno indelebile, non soltanto attraverso la propria musica, fu innescata dall’esempio di un misconosciuto trio art-punk della stessa Oklahoma City, che aveva deciso di chiamarsi The Hostages: “Chi si fosse ritrovato all’improvviso ad ascoltarli e a vederli avrebbe pensato a dei pazzi fottuti. Noi, però, li conoscevamo. E anche se la loro musica e il loro spettacolo dal vivo erano folli, come persone erano molto normali e gentili. Dunque, pensammo che anche noi avremmo potuto fare dischi strampalati e suonare spettacoli strampalati, nonostante fossimo dei normali imbranati”.
Pur essendo riuscito a esaudire uno dei suoi sogni, cioè quello di registrare e pubblicare la musica della sua band, Wayne non aveva smesso di ascoltare tutto quello che gli capitava tra le orecchie, spinto dalla curiosità di capire se in giro ci fosse qualcosa che andasse al di là della solita solfa. Un giorno, si sintonizzò sulle frequenze del programma musicale che lo studente di giornalismo David Fallis conduceva sulla radio dell’università dell’Oklahoma e vide la luce: “Non ascoltavo quel programma da un paio di settimane e in quel momento Fallis stava passando un diverso tipo di musica underground americana, non la solita roba skinhead rock e suprematista che era solito mandare in onda. Insomma, mi ritrovai alle prese con Redd Kross, R.E.M., Black Flag, Meat Puppets, Butthole Surfers e pensai: ‘Wow, questa roba è fantastica!’ Era melodica, intensa senza essere unidimensionale, e alcune di quelle band suonavano in un modo davvero grandioso. Poi, ascoltai un brano degli Hüsker Dü, che fino ad allora avevo sempre considerato come 'l’ennesima band hardcore', e che invece avevano da poco realizzato una cover di ‘Eight Miles High’ dei Byrds e, cazzo!, era un forte, bruciante spasmo religioso, fatto di melodia ed energia, ed era così fuori controllo che la musica riusciva a travolgere anche chi la stava suonando. Mi scosse e mi trascese, così pensai: ‘Finalmente i punk rocker prendono l'acido!’”. Che era un’affermazione non lontana da quanto, all’epoca, andava sostenendo anche Cris Kirkwood dei Meat Puppets, secondo cui, seppur su scala ridotta, il punk-rock aveva più di qualcosa in comune con il movimento hippie.
Dopo quell’esperienza rivelatrice, i Flaming Lips cominciarono a meglio definire il loro sound, pubblicando un primo Lp, “Hear It Is” (1986), in cui garage-rock, psichedelia, tracce di pop e new wave davano vita a un affresco sonoro di grande effetto, e un secondo, “Oh My Gawd!!!...The Flaming Lips” (1987), ancora più efficace nel costringere il loro garage-rock a fare i conti con la psichedelia, soprattutto quella pinkfloydiana/barrettiana, e caratterizzata da un gusto citazionista tutt’altro che velato. Ancora meglio, però, farà il successivo “Telepathic Surgery”, disco con cui i Flaming Lips chiuderanno idealmente la loro prima fase, quella più freak e selvaggia.
"Sembra proprio che i Flaming Lips siano qualcosa su cui basare la tua vita"
(Wayne Coyne, 1988)
Avendo ricevuto dalla Restless, l’etichetta californiana con cui avevano fatto il loro esordio e che li aveva supportati fino a quel momento, un anticipo più consistente del solito (diecimila dollari, praticamente il doppio rispetto a quanto ricevuto per “Hear It Is”), Wayne e Michael (che, nel frattempo, stavano continuando a fare esperimenti con la privazione del sonno, nel tentativo di raggiungere stati di allucinazione non indotti dalle droghe) provarono a pensare più in grande, immaginando il nuovo disco come un lavoro incentrato su un collage noise-psichedelico da trenta minuti circa, che avrebbe dovuto occupare un’intera facciata del nuovo album. Alla fine, però, le cose non andarono in quella direzione e “Telepathic Surgery” saltò fuori come un semplice Lp di scarsi trentanove minuti di musica, che salirono a quasi sessantacinque nella versione in cd, su cui, per fortuna, oltre all’aggiunta di “Fryin’ Up”, comparvero anche i ventitré minuti di "Hell's Angel's Cracker Factory", che di quel collage noise-psichedelico era diretta emanazione.
Ovviamente, la versione che qui ci interessa sviscerare è proprio la seconda, perché in essa i Flaming Lips toccarono l’apice del loro postmodernismo rock, utilizzando il citazionismo come un vero e proprio carburante per la propria creatività. A tal proposito, per riprendere quanto Art Black scrisse sulla rivista Away From The Pulsebeat, le “fonti originali” cui Wayne e soci si abbeverano “sono paragonabili all'aspirina e all'acido”, nel senso che hanno un effetto fluidificante e allucinatorio sulla loro inventio.
Rispetto ai suoi predecessori, “Telepathic Surgery” è più grintoso e rumoroso, in ciò riflettendo l’influenza di due band fondamentali della scena alternativa statunitense degli anni Ottanta: “Penso fummo sicuramente influenzati da Butthole Surfers, Sonic Youth e altri gruppi noise. Eravamo alla ricerca dei limiti della nostra musicalità. Allo stesso tempo, però, pensavamo: ‘Beh, possiamo essere anche rumorosi!’”. Anche se nel complesso i Flaming Lips restarono più affascinati, musicalmente parlando, dalla band newyorkese, a un certo punto scoprirono di essere più legati ai Butthole Surfers. “Nel 1986 suonammo un concerto insieme a loro e ci colpirono sia la loro freakiness che quella loro attitudine di non lasciare nulla di intentato, e fu forte, spaventoso e semplicemente meraviglioso”, ricorda il solito Wayne. Ma c’era di più: “I Butthole erano ragazzi con cui potevamo identificarci, mentre non riuscivamo, ad esempio, a identificarci con Thurston Moore. I Sonic Youth erano brave persone, ma c'era in loro un'aria artistica tipicamente newyorkese, e noi eravamo solo un gruppo di montanari. Quando uscivamo con i Surfers, eravamo fratelli, e loro divennero per noi l’incarnazione vivente del principio 'essere in una band è ciò che fai, perché è questo ciò che sei'".
La fase di scrittura e di registrazione di “Telepathic Surgery” coincise con un periodo non esattamente tranquillo per Wayne, costretto a sopportare anche le critiche dell’allora sua compagna e manager della band Michele Vlasimsky, che lo accusava di aver reso il nuovo materiale fin troppo cerebrale. In ogni caso, dagli studi Goodnite Audio di Dallas uscì un lavoro destinato a restare una pietra miliare nella storia della band e della neo-psichedelia.
“Telepathic Surgery” giunge nei negozi di dischi il 3 gennaio del 1989, accompagnato da una copertina su cui compare una foto, scattata con un obiettivo fish-eye, che ritrae Michael a petto nudo e con una mano poggiata su di una recinzione di filo spinato, mentre con l’altra regge un coprimozzo davanti al volto. Sullo sfondo, un traliccio della rete elettrica troneggia su un campo che si perde a vista d’occhio.
Quanto al resto, Wayne ricorda con disappunto: “Inviai alla Restless una mia idea della grafica di copertina, ma volevamo che qualcuno si occupasse, al posto nostro, del lettering: io avevo solo disegnato, in appena dieci minuti, quello che gli avevo spedito, ma me lo rimandarono indietro dicendo che l’avevano già realizzato. Fu un vero disastro, ma a quel punto non potevamo più cambiarlo”. Il leader delle “Labbra Fiammeggianti” fu comunque accontentato per quanto riguarda la scelta della foto della quarta di copertina: un bulbo oculare che sta per essere gettato nello scarico di una lavandino. Wayne amava i bulbi oculari: ne aveva voluto uno anche nel retrocopertina di “Hear It Is”, mentre un paio li aveva piazzati nelle orbite dei teschi che campeggiano sulla copertina di “Oh My Gawd!!!...”.
"L’espressione 'chirurgia telepatica' si riferisce a ciò che non puoi vedere, sentire o toccare, ma che ti entra in testa fino a infastidirti
(Wayne Coyne)
Due colpi di bacchetta sul bordo del rullante e il riff che introduce “Drug Machine In Heaven” chiama i Flaming Lips a raccolta intorno a una versione stoogesiana dei primi Pink Floyd. L’intensità del brano (che per alcuni è da ricondurre anche alla sorgente dei primissimi Sonic Youth) è acuita dal batterismo poderoso e acrobatico di Richard English (artefice, in tutto il disco, di una prestazione davvero eccezionale), mentre nel testo Wayne sembra alludere a una storia d’amore particolarmente intensa ("Ogni volta che voliamo insieme/ Il nostro aereo esplode nel cielo/ Stiamo lavorando in una fabbrica di esplosivi/ Perché non ci importa se moriamo") e intanto invoca la venuta di un “Gesù del XX secolo”, uno che “ci faccia diventare ricchi”, perché tanto, anche se la Terra è un inferno, a lui, insomma a Wayne, non interessa cambiare, essendo proprio l’inferno ciò che gli piace (“I don't want to be no one else/ I like it here, 'cause I like hell").
Poco dopo l'uscita di "Telepathic Surgery", la Sub Pop chiese ai Flaming Lips di poter usare “Drug Machine In Heaven” per la propria selezione mensile Singles Club. La band accettò e registrò nuovamente il brano con il titolo di “Drug Machine”, offrendone però una versione grunge, come se a suonarla fossero i Nirvana di “Bleach”. Sul 7” uscito per l’etichetta di Seattle, il brano è accompagnato da due cover: “Strychnine” dei Sonics e “What's So Funny (About Peace, Love And Understanding)” dei Brinsley Schwarz, quest’ultima basata sulla rilettura che ne fece Elvis Costello nel 1978.
Le progressioni barrettiane di “Astronomy Domine” fanno il paio con un’insistita pulsazione di basso per scaraventare “Right Now” in una torrida dissertazione intorno a un trip psichedelico dai tratti esistenzialisti ("Crediamo di sapere esattamente chi siamo/ Ma a volte penso che siamo andati troppo oltre"; "La mia vita e le mie ore giacciono sul pavimento"). Il tremolo chitarristico che occupa i primi due-tre secondi del brano, fungendo da micro-introduzione, è evidentemente un altro omaggio al grande chitarrista inglese, nonché “pifferaio alle porte dell’alba”: “Quando sono cresciuto negli anni Settanta, i Pink Floyd erano ovunque. I miei fratelli, la mia sorella maggiore e tutti i loro amici suonavano costantemente i loro dischi mentre fumavano erba nelle loro stanze. Soprattutto ‘The Dark Side Of The Moon’. Quel disco, l’ho ascoltato tutti i giorni, per almeno tre o quattro anni”. Tuttavia, “era Barrett quello che sentivo più mio, perché era così incasinato e introverso”.
In ogni caso, in “Right Now” le schitarrate acrobatiche e potenti di Wayne generano un tripudio elettrico così abbagliante da evocare immediatamente anche il mulinare imperioso del braccio destro di Pete Townshend, il quale, con selvagge plettrate, amava colpire le corde della propria chitarra. Del resto, gli Who avevano rappresentato per lui una vera e propria illuminazione: “Quando li ho visti dal vivo nel 1977, è stato davvero un momento che ha cambiato la mia percezione; non era più musica, era come un potere profondamente religioso. All’epoca, stavano ancora suonando le canzoni di 'Tommy', ma suonate, in un certo senso, come quelle che si ascoltano su ‘Live At Leeds’, dove c’era solo caos e liberazione totale. E anche se la gente diceva che, quando li vidi, non erano al culmine della loro potenza, quella sera furono abbastanza potenti. Quelle furono un paio d'ore di musica che mi hanno cambiato la vita. Furono fottutamente devastanti. Sono uscito come se avessi cambiato testa”.
The daylight rips at my naked thoughts
A hundred miles an hour
But I'm still lost right now
We think we know just who we are
But sometimes I think we've gone too far
Right now... right now
Durante le registrazioni del disco, poteva capitare che qualcuno si mettesse a riposare dove meglio poteva. Michael, ad esempio, era uno di quelli che amava dormire vicino all'amplificatore della chitarra. Un giorno, Wayne pensò di dargli la sveglia: prese la chitarra e tirò fuori un violento freakout, molto simile a quelli di Paul Leary dei Butthole Surfers. Era nata “Michael, Time To Wake Up”. Come ricorderà l’ingegnere del suono Ruben Ayala: "Wayne stava impazzendo, e giuro su Dio, anche se il suono era così forte, Michael non si mosse nemmeno. Tutto quello che fece fu girarsi sull'altro fianco per continuare a dormire”.
Il gusto citazionista della band tocca uno dei suoi apici nella malinconica power ballad di “Chrome Plated Suicide”, che prende ispirazione da “Sweet Child O’ Mine” dei Guns N’ Roses (“Credo che qualcuno, all’epoca, mi avesse mostrato gli accordi di quella canzone”, dirà Wayne) e da “Blowin’ In The Wind” di Bob Dylan, per cantare l’amore come una “chirurgia telepatica” (da qui il titolo dell’album!), perché “fa cose che non puoi vedere” e “taglia e graffia proprio come Iggy Pop gettato in un buco”. Quell’amore che, come si canta nel ritornello, “sarebbe la cosa migliore al mondo” se solo si potesse fare a meno dei “nervi” e lasciare soltanto le “parole”.
“Hari-Krishna Stomp Wagon (Fuck Led Zeppelin)” guarda all’epica machista della band di Page & Plant (il riff sembra una versione velocizzata di quello di “Misty Mountain Hop”), per piegarla in un contesto in cui garage e post-punk fanno a gara a chi gonfia più la coda. Sullo sfondo, ancora tracce di esistenzialismo in sedicesimo: “Rifiutando l'esistenza, tutto sembra bruciare da sé”.
Quanto a “Miracle On 42nd Street”, si tratta di un dolce interludio per basso, tocchi di pianoforte e voce, il tutto introdotto da una manopola radiofonica che salta da una stazione all’altra. Nel testo, una storia misteriosa:
Stavo camminando per strada l’altro giorno
C'era un'auto che stava bruciando, ma la radio era ancora accesa
Allora sono corso lungo l'isolato fino al telefono
E ho finito per curare questo tizio cieco
In modo che potesse scendere e guardare l'incendio
La martellante “Fryin' Up” rigurgita a ripetizione l’immortale riff di “Born To Be Wild” degli Steppenwolf, inciampando su panoramiche orchestrali e rievocando i giorni passati da Coyne a lavorare come friggitore presso il Long John Silver's di Oklahoma City, un lavoro che non gli aveva permesso di mettere molti soldi da parte, ma che gli aveva dato, gli piaceva ricordarlo, “la libertà di sognare”, il che è vero, così come è però vero anche il fatto che qualche soldino in più riuscì comunque a farlo grazie allo spaccio di marijuana e ciò contava molto, dato che “bisognava lavorare per fare soldi”, perché solo così si poteva andare poi a suonare la propria musica, con cui Wayne non riusciva ancora a fare soldi. Tuttavia, proprio mentre era un dipendente del Long John Silver's, Wayne vide in faccia la morte e fu così che si prese una volta e per sempre la propria vita. Tutto accadde quando due tizi entrarono nel locale con pistole in bella mostra, pronti a portarsi via l'incasso della giornata: “Fino a quel momento, non mi ero mai davvero reso conto di essere vivo. In seguito, per circa sei mesi, me ne sono andato in giro senza quegli stupidi complessi meschini che hai quando sei un adolescente. È stato meraviglioso. Penso che quell’esperienza di pre-morte mi abbia in un certo senso elevato un po', facendomi anche capire che volevo davvero suonare la musica che avevo in testa. Non si trattava più di essere semplicemente una rockstar”.
Il capolavoro del disco, e forse dell’intero canzoniere dei Flaming Lips, è racchiuso nei ventitré minuti di "Hell's Angel’s Cracker Factory", che procede in forma molto libera lungo due binari paralleli. Il primo vede protagonisti essenzialmente la chitarra e la batteria, che imbastiscono un’eccitante jam al confine tra space-rock, hard-rock lisergico e noise, in cui emergono tracce degli Hawkwind (un brano come “Brainstorm” potrebbe essere un buon indizio per leggerne, in controluce, l’influenza), visioni dell’Hendrix in volo verso la “Third Stone From The Sun” e dell’Helios Creed a cavallo tra "Alien Soundtracks" e "Half Machine Lip Moves", nonché scampoli onirici di “Albatross” dei Fleetwood Mac. Il tutto è introdotto da un drone umbratile e dal rombo di una motocicletta, come è giusto che sia, dato che Wayne ne possedeva una a cui era molto legato e quindi gli sembrò naturale giocare, nel titolo, anche con quel riferimento agli Hells Angels, la banda di motociclisti che ebbe diversi legami con la controcultura psichedelica degli anni Sessanta e che fu responsabile, tra le altre cose, dei disordini e della morte di uno spettatore durante il famigerato Altamont Free Concert del dicembre 1969, evento che pose idealmente fine alle grande utopia del peace & love veicolata dalla comunità hippie. Per Wayne, comunque, il riferimento agli Hells Angels era anche un modo per mantenere vivi i ricordi della propria giovinezza, quando lui e i suoi amici giocavano a football senza risparmiarsi, facendosi chiamare “fearless freaks”: “Era un po’ come essere negli Hells Angels o qualcosa del genere. Essere circondato da tutte queste persone che desiderano ardentemente un po' di intensità nella vita… E penso che ascoltare musica, assumere droghe, guidare motociclette, giocare a football, etc., alla fine non significhi altro che desiderare più vita…”. Un desiderio che si avverte nitidamente nelle evoluzioni chitarristiche di questo primo binario lungo cui corre "Hell's Angel’s Cracker Factory”.
Nel secondo, invece, la band imbastisce un caleidoscopico collage in perfetto stile psichedelico, servendosi, tra le altre cose, di voci operistiche, registrazioni radiofoniche, nastri in reverse, sprazzi di musica concreta, manipolazioni sballate, armoniche sfiatate, piccole figure di pianoforte e, per chiudere, un sample tratto da “Get Up (I Feel like Being A) Sex Machine” di James Brown.
“Con "Hell's Angel’s Cracker Factory", volevamo registrare la nostra versione di ‘Alan’s Psychedelic Breakfast’”, disse Wayne. Insomma, la suite in tre parti che chiudeva “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd. Tuttavia, il vero brano pinkfloydiano di riferimento sembra essere uno dei grandi capolavori dell’era barrettiana della band inglese, e cioè “Interstellar Overdrive”, che naturalmente i “fearless freaks” di Oklahoma City evocano con il piglio di punk-rocker che hanno finalmente deciso di prendere l’acido.
A spingere i Flaming Lips nella direzione sperimentale di "Hell's Angel’s Cracker Factory" non fu soltanto la passione per l’eccentrico, ma anche gli attestati di stima ricevuti, dopo i loro primi due dischi, da alcuni dei loro colleghi. Così ricorda Wayne quel periodo: “Dopo ‘Hear It Is’ e ‘Oh My Gawd!!!...’, diverse band continuavano a venire da noi chiedendoci come avevamo fatto a ottenere quei risultati e questo finì per incoraggiarci a continuare nella nostra esplorazione sonora. Ecco perché, a conti fatti, il grosso delle nostre energie finirono per essere spese nella realizzazione di ‘Hell's Angel’s Cracker Factory’”.
Fondamentale, per la realizzazione di questo capolavoro fu anche la lezione di una delle band che più avevano colpito l’immaginazione del giovanissimo Wayne: i Beatles. Soprattutto quelli del “White Album” e di un suo brano in particolare, un cui frammento vocale (“Take this, brother, may it serve you well") era stato posto all’inizio di “Everything's Explodin'”, brano d’apertura di “Oh My Gawd!!!...”: “‘White Album’ è uno di quei dischi un po' sciatti, registrati in stanze strane. Ha questa atmosfera insolita, danneggiata dalla droga. Per quanto mi riguarda, i Beatles non sarebbero quelli che sono senza ‘Revolution 9’. Senza questo brano, non li avrei amati così tanto. Anche se ero molto giovane, ho sempre pensato che ‘Revolution 9’ fosse altrettanto valida, altrettanto ascoltabile, altrettanto perfetta di ‘Strawberry Fields Forever’, qualcosa che ha molta struttura, melodia, testo. Solo dopo qualche anno, mi resi conto di quanto fosse inquietante quel collage”.
Spesso sottovalutato dai fan della seconda fase dei Flaming Lips (che, a dirla tutta, relegano, spesso e volentieri, l’intero “Telepathic Surgery” a disco di transizione e via di questo passo) e, ancor prima di essere pubblicato, dalla stessa Vlasimsky (che finì per spingere Wayne a eliminare alcuni dei passaggi più estremi in fase di missaggio) "Hell's Angel’s Cracker Factory" è in realtà un momento fondamentale per la storia e l’evoluzione della band americana (“un’esperienza di apprendimento necessaria per il progresso della band”, per usare le parole di Wayne). Se ne è accorto, ad esempio, anche il critico Mark Richardson, secondo il quale le radici del singolare esperimento di “Zaireeka” (1997) si trovano proprio in questa lunghissima gemma che offrì ai tre Okies la possibilità di “tuffarsi a capofitto nell’astrazione”.
“U.F.O. Story” è una suite in tre parti: nella prima, Wayne racconta ai suoi sodali di aver parlato con l’amico Michael Stipe dei R.E.M., spaventandolo con il ricordo di un paio di avvistamenti in cui lui e suo fratello minore Mark videro disporsi sopra le proprie teste ben sei ufo! (“Questa storia”, dirà Wayne, “avrebbe dovuto essere molto spontanea, ma l'abbiamo provata parecchio”); nella seconda, la chitarra macina un riff ossessivo, che culmina in una catastrofe rumorista: nella terza parte, infine, una melodia di pianoforte (scritta da Richard) aggiunge un tocco di malinconia al tutto.
Impreziosito da un assolo di armonica (suonata dall’ospite Craig "Niteman" Taylor dei Killbilly), “Redneck School Of Technology” (per cui venne realizzato anche un videoclip) torna alla frenesia trascinante del garage-rock, questa volta però piegandolo a farsi veicolo di miraggi Southern rock (non a caso, Ronnie Van Zant, il cantante dei Lynyrd Skynyrd, viene espressamente citato nel testo, in cui Wayne, desideroso di “riconsiderare le cose”, afferma di voler “vivere ogni giorno come un camionista senza i suoi stimolanti”, riconoscendo che, se la sua scuola “fosse andata a fuoco”, allora di sicuro sarebbe “diventato più intelligente prima").
Aperta da un sample tratto dal quinto movimento (“Balletto dei pulcini nei loro gusci”) dei “Quadri di un’esposizione” (1886) di Modest Petrovič Musorgskij, “Shaved Gorilla” regala, invece, una ballata agrodolce il cui testo è senza dubbio il più surreale del disco: “Abbiamo preso un gorilla e lo abbiamo rasato/ E gli ho comprato una moto/ Giuro che se Dio solo ce lo permettesse, lo cambieremmo/ Non ci interessa più di tanto, adesso”.
Quanto a “The Spontaneous Combustion Of John”, si tratta del brano più breve del disco (appena cinquantatré secondi di durata) e presenta una vignetta dark-folk a bassa fedeltà: "È un vero peccato, Johnny fuma/ E i suoi occhi sono pieni di fuoco/ Come la prima volta che Captain Marvel lo ha fulminato/ Proprio in mezzo agli occhi". Il brano fu firmato da Richard English, che proprio all’epoca provò a scrivere alcune delle sue prime canzoni. “Non credo fosse quello che volevo fare davvero”, dirà. “Una parte di me era in competizione con Wayne proprio perché volevo capire se ero in grado di riuscire a scriverle”.
Immersa in un’atmosfera dolcemente nostalgica, “Last Drop Of Morning Dew”, oltre a far pensare a una versione più veloce di “Shaved Gorilla” (quasi come se qui i Flaming Lips giocassero con l’autocitazione!), potrebbe essere sia la migliore canzone dei Replacements che Paul Westerberg non ha mai scritto, sia un omaggio ai Jesus and Mary Chain, altra band molto amata da Wayne. Nel testo, si disserta sull’inquietudine dell’uomo, sulla sua precarietà e sulle colpe di Dio:
E tutti quei piani che ho fatto
Entro la fine della giornata sono tutti cambiati
Perché Dio ha fatto una cazzata quando ci ha creati
Perché ci ha creati affinché potessimo odiarci
E il mondo potrebbe finire tra un attimo
Nel chiudere il cerchio, "Begs And Achin'" torna dalle parti dei Led Zeppelin e di certo rock sudista, con tanto di assolo spaccone di Wayne. E tornano anche gli ufo: “I see ya flying in your ufo all the time/ Crash and burning in my back yard/ It's begs and aching all the time”. Questo, per il primo minuto e venti circa. Poi, si va di defaticamento. E nelle orecchie è come se passassero in rassegna tutti i momenti del disco, uno dentro l'altro. Come una "chirurgia telepatica". O una risacca di tutti i nostri ricordi possibili.
22/12/2024