Quando queste parole cadranno una ad una sotto i tacchi di una danza,
Quando questi denti avranno morso le labbra nomadi del tempo,
Quando queste mani apriranno il vento,
Quando avrò posato a terra l’orecchio per sentire il tuo cuore nel profondo, per sentirlo correre e cantare,
Quando avrò volato a piedi nudi con i corvi neri sopra i vostri campi d’oro e sopra il sonno delle scimmie,
Quando in un'alba di seta avrò liberato l’odio dalle vostre lenzuola
e incendiato i cancelli delle vostre sicure case d’Occidente
Quando...
Quando avrò parlato ai secoli delle nostre sconfitte
E dei poeti e dei guerrieri e dei profeti chiusi freddi muti e stanchi,
Quando avrò scambiato l’odore sacro del pane ammuffito con una nuova armatura
Quando i miracoli rotoleranno tra una folla di tamburi,
Quando i porti e le oasi, i ponti e le strade, saranno solo stagioni nel palmo della mia mano,
Allora ti avrò di nuovo accanto e tornerò a difenderti, che sia maggio o ottobre.
Allora, e solo allora, tornerò a casa.
Deve essere stato spiazzante in quel 1991, per chi aveva conosciuto i marchigiani Gang come emuli italiani dei Clash, metter su il loro quarto album “Le radici e le ali” ed essere avvolti dagli accordi acustici ed echeggianti di “Esilio”, un’apertura che sostituiva il fragore delle chitarre elettriche con un tappeto modale folk. Su di questo l'attore Ireneo Petruzzi, con un recitativo scandito e quasi liturgico, evocava il ritorno alla propria terra, segnando una transizione irreversibile per la band: il passaggio da un suono punk e urbano a un canto di radici.
Il gruppo della provincia di Ancona aveva deciso di abbandonare l’inglese in favore dell’italiano, e simultaneamente di esplorare sonorità che erano rimaste a lungo ai margini del rock italiano: e parole come materia di lotta, gli accordi folk come strumenti di protesta. Non potevano saperlo, ma con “Le radici e le ali” i Gang stavano ponendo le basi di quel filone impegnato e "movimentista" che negli anni successivi avrebbe dato vita a Modena City Ramblers, Yo Yo Mundi, Mercanti di Liquore e, in chiave più eclettica, Bandabardò e Davide Van De Sfroos. L’album si configurò dunque non soltanto come svolta artistica, ma come modello di folk-rock militante, nelle cui note e parole si sarebbero rispecchiate le piazze in corteo di una generazione - e, almeno in parte, anche di quelle successive.
Tradizione e militanza
Raccogliendo l’eredità dei Canzonieri e del fermento sessantottino, i Gang riprendevano la continuità fra radici popolari e spinte civili e rivoluzionarie. La direzione artistica di Gianni Sassi, negli anni Settanta anima della Cramps, faceva da trait d’union con il percorso che, partendo dalla visione cantautorale dei Cantacronache, sfociava nel decennio Settanta del folk rivendicatore dei primi Stormy Six, degli Yu Kung o dei Musicanova.
In quei primi anni Novanta di trasformazione, a ridosso della caduta del Muro di Berlino, università e centri sociali reclamavano un’identità musicale che rispecchiasse istanze di giustizia e solidarietà capaci di guardare oltre all'orizzonte nazionale ed europeo. “Le radici e le ali” offrì una risposta sonora, intessendo storie di emarginati e di eroi sbilenchi in un racconto dal forte impatto emotivo. La musica come strumento di partecipazione e cambiamento, ma anche di scoperta di chi che ci è vicinissimo e non vediamo, o di ciò che appare lontano e in realtà ci riguarda strettamente.
Fu lo storico e critico musicale Alessandro Portelli, collaboratore dell'etichetta I dischi del sole, a spingere la band verso l’italiano. I fratelli Sandro e Marino Severini, fondatori e principali autori della band, riconobbero in Portelli una bussola intellettuale per coniugare folk e militanza.
Fu lui e soprattutto la sua autorevolezza, la grande stima che nutrivo nei suoi confronti a farmi pensare che era giunto il momento di 'svoltare' verso casa, e la prima mossa di Portelli perché ciò avvenisse fu quella di farci conoscere con Ambrogio Sparagna. Soprattutto perché siamo marchigiani e l'organetto è da sempre lo strumento caratteristico delle nostre tradizioni musicali ancor più della fisarmonica. Sparagna accettò la sfida, venne a casa nostra e cominciammo pian piano a far convivere le nostre nuove canzoni con le sue frasi i suoi timbri il suo stile. E in 'Reds' incidemmo un suo brano, 'Emigration Song'
(Marino Severini intervistato da Marcello Matranga su Mescalina)
La scelta della lingua madre dava ai testi una risonanza inedita, come osservò Alberto Campo nella recensione del disco su Rockerilla: “La musica ribelle che ti entra nelle ossa e ti vibra nella pelle […] il fatto di 'cantarla all'italiana' lo accresce in misura esponenziale”. E così Max Stefani su Il Mucchio Selvaggio: “E' un disco per chi ancora non si arrende, per chi ha ancora il fegato d'incazzarsi e di lottare […] Non comprare questo disco vuol dire aver rinunciato al proprio spirito”. Testimonianze che dimostrano come, già all'epoca, la scelta dei Gang segnasse non solo un’operazione stilistica, ma un atto dirompente di partecipazione politica.
Frammenti globali di resistenza
Ma lo sguardo di “Le radici e le ali” non si arresta all'Italia. Come l'album affonda le sue radici nella storia, così dispiega le sue ali verso altrove molteplici, fatti di culture e battaglie che risuonano in una prospettiva corale. “Bandito senza tempo” si apre con un canto polifonico degli Yanomami dell'Amazzonia, e subito lanciata su accordi ariosi e un tema di flauto sognante ed energico. Il protagonista è un “bandito senza tempo” che fonde in sé suggestioni di fuorilegge ottocenteschi, migranti, attivisti, esponenti delle Brigate Rosse e persino rockstar ("con una Magnum Les Paul spara canzoni che fanno male"). Il pezzo si chiude con la coda celticheggiante flauto–violino sul verso "Ma un tempo fu un bandito, bandito senza tempo; veniva con la pioggia e se ne andava via col vento", anticipando sia nel suono che nelle immagini quel folk militante che diventerà cifra dei Modena City Ramblers e di una parte del filone movimentista.
Poco dopo, “Johnny lo zingaro” incorpora un canto tradizionale gitano, affidando a Massimo Bubola un’interpretazione intensa della storia del criminale bergamasco Giuseppe Mastini. In “La lotta continua” emergono voci di Che Guevara, Arafat e Mandela, oltre che canti anarchici della Guerra di Spagna. Frammenti di found sounds che configurano un coro di voci internazionali, in cui le lotte locali - dal banditismo sociale alle proteste operaie - si intrecciano con i grandi movimenti di liberazione mondiali. Così, in ogni spezzone di archivio e in ogni melodia, i Gang celebrano quei personaggi “dal lato sbagliato della storia” che i Wu Ming avrebbero posto al centro delle loro narrazioni: antieroi spesso in torto, perdenti fin dalle premesse, ma in lotta contro un ordine che li esclude e capaci - con la loro storia - di rappresentare la voce di chi una voce non la ha.
Inni di lotta e melodie di speranza
Il cuore politico dell’album pulsa in brani che sembrano nascere come colonne sonore di una manifestazione. “Socialdemocrazia” miscela stacchi ska-punk e chitarre incisive per denunciare derive e ingiustizie, segnalando l’Italia come “Terra di eroi, santi senza peccato, di mafia, P2 e stragi di Stato” (chiosa ripresa di lì a poco dai Modena City Ramblers nella loro "Quarant'anni").
Il pezzo che dà il titolo al disco dispiega flauti e percussioni dagli echi andini sottofondo per la storia obliqua - scritta con David Riondino - di un “vecchio comunista”, dalle montagne della Resistenza all’era “dei compromessi e le piazze vuote, nuovi altari nuove frontiere”. La band commenterà: “Le radici sono la nostra appartenenza: i nostri legami e la nostra ideologia che sono però destinati a non avere sviluppo se non diamo loro un paio di ali che ci permettano di andare oltre”. Qui si racchiude il cuore ideale dell’album: la tensione tra la forza delle origini e il desiderio di spingersi al di là dei confini. È un invito a non cristallizzarsi nella memoria, ma a farne volare l’eco verso nuove forme di partecipazione.
“La lotta continua” apre il lato B con un folk-punk dai tratti quasi hard, sostenuto da un assolo che sconfina nel trionfalismo della big music dei Big Country. Il titolo richiama il movimento extraparlamentare di Adriano Sofri, ma il brano guarda anche oltre: “Da quando gioia e rivoluzione son tornate nei nostri cuori” è un verso che strizza l’occhio agli Area, mentre il primo verso evoca lo slogan “Bread and roses” — nato da un discorso della sindacalista Rose Schneiderman e diventato simbolo delle lotte femminili, a rivendicare non solo il pane per vivere ma anche le rose per farlo con dignità. La traccia tiene insieme tutte queste eredità e le rilancia con energia: una canzone di battaglia, ma anche di bellezza e speranza.
Ma la maggiore incursione nella big music – nonché uno dei brani più memorabili del disco – si ha con “Ombre Rosse”, quasi un inno sognante e malinconico. La costruzione musicale è semplice e magistrale: accordi acustici tintinnanti, organo avvolgente e batteria incisiva, linee di chitarra anthemiche e un basso sorprendentemente estroso e funk si fondono in una ballata potente e ammaliante. Introdotta da una registrazione di archivio dell’ideologo brigatista Renato Curcio a proposito della sconfitta pianificata della classe operaia, la traccia suona come un invito, accorato anche se saturo di disillusione, a non lasciare che l’ombra del passato cancelli le speranze del futuro.
Sotto un cielo di ombre rosse
Nuovi fuochi accenderemo
Dopo anni grigio piombo
Dopo giorni di veleno
Quante strade si disperdono
Quante luci ci confondono
Quanti volti si cancellano
Quanti sogni che si perdono
L’eco di un impegno
Il tappeto sonoro di “Le radici e le ali” è un mosaico di collaborazioni. Mauro Pagani imprime le sue linee di violino in “Johnny lo zingaro”, e alla realizzazione del disco partecipano anche strumentisti d'eccezione come Antonello Salis (fisarmonica) e Daniele Sepe (sax). La Banda Gaetano Donizetti di Casalecchio di Reno, condotta dal Maestro Ronchetti, regala a “Oltre” un’atmosfera di marcia civile, sospesa tra ritualità e fanfara popolare. Ogni intervento si integra armoniosamente nel disegno collettivo, sottolineando la vocazione inclusiva del progetto.
“Che dare?” riprende l’eco di “Esilio” per concludere l’album con un verso che non chiede certezze, ma rilancia un appello:
A oltre trent’anni dalla sua uscita, “Le radici e le ali” non ha perso il suo contatto con il presente. Il suo intreccio di passato e possibilità, di racconto collettivo e tensione individuale, continua a parlare a chi si interroga sul senso dell’agire e del ricordare. Quel tappeto folk che nel 1991 pareva un congedo dal punk si è rivelato invece un nuovo inizio: le radici sono rimaste salde, ma le ali hanno continuato a cercare direzioni. Oggi come allora, la domanda resta aperta - "Che dare ancora al cielo?" - e la musica dei Gang, anziché offrire risposte, invita a non smettere di cercarle.Scarpe rotte bisogna andare
Neanche la pioggia ci potrà fermare [...]
Quando il sole cambia pelle
Ed il cielo si fa nero
Chiedo al dio di questo inferno
Che dare ancora al cielo
27/04/2025