Il crogiolo del trip-hop nasce come realtà urbana, giungla di cemento e pioggia, istantanea di suburbia britannica sfocata in bianco e nero. Certo, c'è quell'attitudine cinematica, portata in dote soprattutto dai Portishead, a proiettarlo verso mondi lontanissimi, tra vecchie spy-story anni 60 e inquietudini noir di lynchiana memoria. Nessuno, però, aveva mai immaginato il Bristol sound in versione rurale, in una mitologica dimensione boschiva, tra verdi foreste di conifere e sterminate distese ghiacciate. Intrappolato in un sogno ad occhi aperti dentro una natura ancestrale e matrigna. Almeno fino all'avvento dell'intrepida Alison Elizabeth Margareth Goldfrapp, che lo aggiornerà secondo la sua personalissima visione quando ormai, all'inizio del Duemila, il movimento aveva esaurito la sua spinta propulsiva.
La bionda cantante, compositrice e tastierista muove i primi passi proprio nel "Wild Bunch" degli alchimisti bristoliani, in quel calderone di rapper, dj, ballerini, writer e produttori che si riunisce per suonare nelle cantine dei sobborghi della città inglese. Insomma, quel formidabile laboratorio che ha già sfornato fenomeni come Portishead, Massive Attack e Tricky. E proprio insieme a quest'ultimo inizia la carriera di Alison, un'artista eclettica che, durante i suoi anni di studio presso il dipartimento di arte della Middlesex University, aveva già realizzato performance e installazioni, combinando suoni e immagini. Mentre è ancora al college, collabora all'album d'esordio di Tricky, "Maxinquaye", e lo accompagna in tour. Nello stesso periodo partecipa anche alla realizzazione di "Snivilisation" degli Orbital. Nel frattempo, inizia a scrivere canzoni di suo pugno, finché un suo nastro giunge alle orecchie di Will Gregory, compositore di colonne sonore per film, che resta ammaliato dalle sue qualità vocali e di scrittura. Nasce così il sodalizio tra i due, passato alla storia come Goldfrapp.
La montagna incantata
I primi progetti dei Goldfrapp sono esperimenti singolari, ispirati alla musica classica, alle colonne sonore anni Sessanta e al pop francese. Temi delicati che, rimodellati con droni elettronici, si tramutano in ballate tese e crepuscolari. È la Mute a credere in loro. E il debutto discografico del duo la ripagherà ampiamente della fiducia accordata. Per l'occasione, alla corte di Alison giungono due assi degli studios: Adrian Utley dei Portishead e John Parish, il fidato produttore di PJ Harvey. Insieme, allestiscono la cornice sonora perfetta per le eteree intuizioni della chanteuse di Enfield, Middlesex.
L'alchimia dei Goldfrapp nasce da una commistione di elementi disparati: prendete gli arrangiamenti dimessi e spettrali alla Portishead, conditeli con il gusto etereo-onirico dei Cocteau Twins e con il lato più sensuale di Bjork, immergete il tutto in paesaggi sonori morriconiani e in atmosfere jazzy da colonne sonore anni Sessanta e avrete - all'incirca - l'essenza sonora di "Felt Mountain", il memorabile disco d'esordio della band inglese. Quasi un "film mentale", profondamente connesso all'ambiente in cui trae origine. "L'abbiamo registrato in un bungalow isolato nel Wiltshire, in mezzo al nulla - rivelerà Alison - Era tutto molto tetro, la notte era piena di strani rumori degli animali nel bosco". Uno scenario riprodotto anche in copertina, con le splendide immagini di una foresta tedesca.
Non manca nulla, a "Felt Mountain", neanche il singolo rompighiaccio, che irrompe come un fulmine a ciel sereno all'alba del nuovo millennio. "Lovely Head" - reso celebre anche da un fortunato spot Bmw - è anzitutto un saggio di bravura di Alison Goldfrapp: il suo soprano rapinoso e straziato da sirena si libra in un vortice di tastiere elettroniche e fischi western campionati, abbagliando con il suo mix straniante di potenza, tenerezza e sensualità. Ma la cantante inglese non si limita alla sensualità sussurrata tipica del trip-hop: ne dilata il potenziale narrativo, facendosi fata, strega o perfino creatura aliena, quando la sua voce, distorta e alterata elettronicamente, si trasforma in pura vibrazione, sospesa su quel fischio morriconiano che pare giungere da qualche canyon remoto di "C'era una volta il West". Fino all'inquietante epilogo del verso "Frankenstein will would your mind". Proprio in questo contrasto tra elettronica futurista e nostalgiche reminiscenze del passato si gioca tutto il fascino di "Felt Mountain".
"Paper Bag" prosegue su questa linea, con un sofisticato accompagnamento di harpsichord e archi che richiama ancora quelle soundtrack anni 60 indiscusso feticcio dell'intero trip-hop, mentre il testo - con versi come "No time to fuck/ But you like the rush/ And where would we/ Be without sums/ Deals we make" - disvela un'ironia sottile, al servizio di una tormentata di tormenti amorosi e business. L'ombra dell'elfo Bjork di "Debut" aleggia invece tra le muraglie di beat di "Human", introducendo elementi ritmici più marcati, con un groove che richiama il cha-cha-cha, ma filtrato attraverso una lente elettronica, mentre il canto di Alison assume tonalità più profonde, quasi da consumata diva da jazz-cabaret, come tra le vellutate sinuosità della lunare "Pilots", con la voce che galleggia su una progressione armonica dal respiro cinematico. In "Deer Stop", invece, la sua voce viene manipolata fino a sembrare infantile, ma in un'inquietante dimensione psicologica, quasi freudiana, sprigionando una melodia fatata e lugubre al contempo, come in una sorta di trance allucinatoria. E in una dimensione più che mai onirica prende forma anche il valzer spettrale di "Oompa Radar" (ispirato al film "Cul-de-sac" di Roman Polański), con gli ottoni a dettare un'andatura marziale su un tappeto minimale di sintetizzatori analogici e la voce trasognata di Alison utilizzata qui prevalentemente come strumento atmosferico, come accade, in maniera più accentuata, sulla quasi-strumentale title track, il cui ritornello bisbigliato a mo' di cantilena si sposa un accompagnamento glaciale, tra clangori, fischi, handclapping e un battito stile metronomo.
Fascist baby e sirene dei boschi
È musica da camera futurista, dove i riverberi si inseguono come le ombre tra le immense valli e le montagne innevate. Musica di isolamento emotivo, che riflette un desiderio di fuga dalle coordinate spazio-temporali della realtà per abbandonarsi a un altrove remoto e appartato. Ma il bosco di "Felt Mountain" non è un luogo bucolico: è un non-luogo, una soglia che ci separa da una dimensione più profonda e insondabile. Ogni suono è ovattato, rarefatto, come se fosse filtrato da uno spesso strato di muschio. "Ogni nota porta con sé l'odore pungente del sottobosco con la sua terra scura di humus, gli aghi lucidi delle conifere e le loro cortecce resinose; come se la musica straniata fatta di sogni perversi si intrecciasse con i suoni di una foresta montana misteriosa e inquietante, dove mille creature si muovono notte e giorno", secondo la felice definizione di Valeria Rusconi.
A infliggere il definitivo colpo da ko all'ascoltatore giunge "Utopia", altra apertura melodica mozzafiato declamata dal soffice soprano di Alison su uno scintillante magma di pulsazioni elettroniche, riverberi e dissonanze. "Fascist baby/ Utopia, utopia/ My dog needs new ears/ Make his eyes see forever/ Make him live like me". Versi sinistri che, più di un'utopia, svelano un futuro distopico, fatto di manipolazione genetica e laboratori di clonazione. La voce di Alison si fa ancora più ipnotica, mentre l'epicità dell'arrangiamento - archi, synth, vocals sintetizzate - amplifica il senso di straniamento e dolcezza tossica.
Chiude "Horse Tears": puro struggimento gibbonsiano, con la musa dei Portishead evocata in un abisso di sconsolata malinconia, sapientemente allestito dal delicato tratteggio d'archi e da una voce che si sempre più diafana e impalpabile, fino a scomparire inghiottita nel mixer.
Nove canzoni per poco più di 39 minuti complessivi di musica in grado di lasciare il segno per sempre. "Felt Mountain" sarà stato accolto con entusiasmo dalla critica, ricevendo anche una nomination al Mercury Prize nel 2001 e il disco d'oro nel Regno Unito. Ma soprattutto resterà nel tempo, a dispetto della sua profonda correlazione con le sonorità dell'epoca. Il suo segreto sta forse proprio nel suo retrofuturismo, che traspare anche dalla stessa commistione tra strumenti classici e moderni, batterie e loop sintetici e glitch che paiono versi di animali notturni, con drammatici mellotron, violini e percussioni tribali. E senza tempo sono anche le sue storie, popolate di visioni da un futuro desolato e inquietante: folli amori, terrificanti società abitate da sinistri androidi celati sotto sembianze umane, disperazione e redenzione. Uno scenario dall'appeal irresistibile, ma che tale non sarebbe stato senza il contributo determinante di un'interprete come Alison Goldfrapp, capace di stregare per sempre l'ascoltatore con il suo arsenale di vocalizzi stranianti, sibili alieni e sussurri mesmerici da sirena dei boschi. Uno di quegli incantesimi da cui sarà sempre impossibile riprendersi.
11/05/2025