Jamiroquai

The Return Of The Space Cowboy

1994 (Sony)
acid jazz, funk, fusion

Ma in fin dei conti, che era di preciso sto acid jazz? Con il senno di poi, si può anche riconoscere che si trattò di poco più che una categoria commerciale. Sbucata fuori sul finire degli anni Ottanta - in larga misura grazie alla promozione del dj radiofonico Gilles Peterson sulla Bbc - l'espressione servì per creare attenzione attorno a musica decisamente eterogenea per la quale ci sarebbero state molte altre etichette adatte. Nu soul con troppe parti strumentali per passare come r'n'b, hip-hop con basi jazzate, dance dal piglio funky ma un po' troppo lenta - e al tempo stesso anche troppo spedita per finire convincentemente nel calderone downtempo. E poi fusion fatta e finita - ma guai a chiamarla così: a cavallo fra Ottanta e Novanta, sarebbe equivalso a bollare in partenza l'intero filone come stantio. Invece con un nome nuovo e cool, beh, tutta un'altra cosa.

Peterson creò pure un'etichetta discografica apposita, manco a dirlo chiamata proprio Acid Jazz Records. Ci pubblicò dischi dei Galliano e del fenomenale suonatore di Hammond James Taylor, di revivalisti funk oggi poco ricordati come Mother Earth e Corduroy. E soprattutto dei Brand New Heavies, che con il funky caleidoscopico del loro album di debutto sarebbero stati i primi del lotto a far breccia in classifica, nel 1990.
Da lì in poi la nuova denominazione prese piede. Se ne può tracciare lo sviluppo sugli archivi di riviste britanniche come Nme e Melody Maker, e seguirne l'associazione a progetti quantomai eclettici: Us3, Guru, Digable Planets, Mc Solaar, Young Disciples, Incognito, United Future Organisation, Outside, D*Note, St Germain, perfino Portishead. C'è un nome che però, già dal singolo di debutto e dai primi live dalle parti di Londra a inizio 1993, capitalizzava l'attenzione dei media e si faceva notare anche da ascoltatori che, fino a quel momento, di acid jazz, e forse anche di jazz in generale, non si erano mai interessati. È quello dei Jamiroquai, band fondata giusto l'anno prima dal cantante e autore ventitreenne Jay Kay, all'anagrafe Jason Luís Cheetham.

Ai tempi della scrittura di "When You Gonna Learn", primo brano inciso dalla formazione, il gruppo in realtà ancora non esisteva. C'era lui, Jay Kay, con la sua estensione B♭2-G♯5 da tenore hard rock - molto più propensa però ad abbracciare levigatezze soul - e c'era un feel preciso nella sua testa: non il suono stereotipato che i produttori cercavano di rifilargli copiando quel che andava in classifica al momento, ma un groove più ricco, più funky, più smooth. "Dexter Wansel, gli Earth Wind & Fire, e tracce come "Los Conquistadores Chocolate" di Johnny Hammond, raccontano le note di copertina della ristampa del primo album. Alla fine, Jay Kay ebbe la sua band e un contratto con la Sony, che subito pubblicò "When You Gonna Learn" in cd (la versione 12 pollici uscì invece per Acid Jazz Records). Il primo album, "Emergency On Planet Earth", arrivò invece nel giugno 1993 e finì al primo posto in classifica nel Regno Unito. Ma non era che l'inizio.

"The Return Of The Space Cowboy" è pronto a ottobre 1994 e segna un chiaro stacco in termini di scelte artistiche. La band ha avuto un riassetto: meno enfasi big band, meno appoggio sui turnisti e un suono decisamente più compatto. Anche il batterista è stato rimpiazzato, con l'ingresso di Derrick McKenzie che resterà stabile da allora. Da subito, l'iniziale "Just Another Story" chiarisce che il gioco si è fatto più grosso. L'attacco strumentale, con un tema spezzato su synth e Rhodes, sembra aver trafugato il segreto melodico dei Weather Report più memorabili, e presto inizia a riverberarsi in rimbalzi di basso in slap, pad avvolgenti, batteria pacata ma contagiosamente funky. Pacata per il momento, si intende, perché dopo uno stacco silenzioso e un nuovo tema sulle ottave basse, se possibile anche più incisivo del precedente, qualcosa nel ritmo inizia a cambiare, a farsi più incalzante, a tirare a più non posso. Mentre la voce di Jay Kay si muove libera fra scat, Mc'ing quasi hip-hop e slanci soul, il Bpm passa gradatamente da 88 a oltre 110, e l'energia del pezzo diventa straripante. Un inizio col botto, che sfuma in una coda ariosa con tanto di flauto e apre a una doppietta di brani dal piglio più latin, la bossa scoppiettante di "Stillness In Time" (flauto, Clavinet, controcanti, percussioni assortite) e la più soulful "Half The Man", midtempo in cui il debito con Stevie Wonder si fa più evidente - senza per questo rinunciare a un intermezzo di chitarra acustica dai tratti samba-jazz.

Tutta un'altra storia "Light Years", uno scossone fin dai primi percussivissimi accordi di piano. Beat dopo beat, l'interplay piano-synth-batteria-basso iperdistorto svela la sua architettura in controtempo, e quando finalmente l'orecchio ci ha fatto l'abitudine, uno spiazzante ottovolante pianistico scombussola le attese, e spalanca la via a un ritornello di puro yacht soul stile Earth, Wind & Fire. Il gioco di incupimenti e schiarite prosegue alzando sempre più la posta, fra fendenti tastieristici (da un certo punto in poi supportati da una sezione di ottoni) e fusioni via via più spinte fra leggiadria disco e graffi hard funk.
Il funk tagliente è protagonista assoluto anche in "The Kids", che già dall'attacco va all-in con fuzz e wah-wah per costruire un riff chitarra-basso che è fra le sequenze più iconiche dell'album. "Manifest Destiny" è un altro numero dal tempo moderato, col suo bel dispiego di accordi diminuti e settime maggiori - ordinaria amministrazione, per una formazione che fin dai suoi primi passi ha saputo destreggiarsi fra le sofisticatezze armoniche, sfruttandole per creare atmosfere dal doppio fondo. L'apice, in questo senso, è però "Mr. Moon", con una progressione fuori di testa che, affidata alle tastiere del coautore Toby Smith, riesce a suonare totalmente naturale nella sua ambiguità (per chi gradisse un momento nerd, ecco un comodo video illustrativo).

Mai esibizionistica, la solidità strumentale dei componenti della band è in effetti la chiave di volta su cui si reggono i brani. Maestri di fluidità e coesione, danno probabilmente il loro meglio nei sette funambolici minuti di "Scam", che fondendo due composizioni nate ai tempi dell'album precedente inanellano, nell'ordine: spirale discendente synth-orchestrale, gommosissima costruzione in basso slap, prodezze disco-funk con chitarra distorta e voluttuosi colpi d'arco, inserti fiatistici stile Chicago vecchia maniera, rallentamento graduale con mantenimento della tensione al suo apice, coda latin jazz su vamping alla Nile Rodgers. Sole costanti, la batteria di McKenzie stabilmente ahead of the beat e il vocalizzare libero di Jay Kay, inciso in lo-fi ottenendo una grana da radio d'altri tempi.
I due episodi successivi, "Journey To Arnhemland" e "Morning Glory", puntano ancora di più sulla componente strumentale. Nel primo, il posto di Jay Kay è preso dal didgeridoo di Wallis Buchanan; nel secondo - decisamente il pezzo più rilassato dell'album - l'atmosfera onirica e contemplativa è sorretta in massima parte dal dialogo di synth, percussioni e arpa (non accreditata).
Frizzantezza, serenità, eleganza e poliedricità, grinta, spontaneità: tutti i tratti che caratterizzano i diversi momenti del disco convergono nella conclusiva "Space Cowboy" - pezzo che per molti deve essere stato la prima occasione di incontro con la musica dei Jamiroquai. Il brano è circolato in due take diverse: quella presente sull'album, con al basso il turnista Paul Powell (indicato nei credits come "Mr. X"), e quella incisa con l'effettivo bassista della band, Stuart Zander. È in realtà questa versione, nota come "Stoned Again" mix e riconoscibile dall'energica figura di basso in slap nel ritornello, la prima a essere stata registrata, ed è da questa che sono state estratte le riduzioni impiegate per il singolo radiofonico e l'iconico videoclip in motion control, visivamente rimaneggiato negli Stati Uniti per occultare la presenza di una foglia di marijuana.

La passione del cantante per hashish e dintorni è in effetti il fulcro del testo del brano, che ne celebra gli effetti disinibitori e latamente spirituali. Ma etichettare "Space Cowboy" come una pura e semplice drug song sarebbe fuorviante: scritta nel bel mezzo del gorgo di dipendenze in cui Jay Kay era precipitato dopo la pubblicazione del primo album, la canzone è una presa di coscienza e al tempo stesso uno slancio di riscatto. "Maybe I'm gonna have to get high just to get by" ("Forse essere fuori mi serve per poter andare avanti"), recita il ritornello tra falsetti e blue note per ammissione dell'autore, il testo non lascia intendere se il tema riguardi se stesso o qualcun altro, se si riferisca alla marijuana o alla cocaina. È invece chiaro che ritragga la situazione di una persona persa, che cerca di rimettersi in carreggiata prima che sia troppo tardi. Jay Kay lo avrebbe definito il suo comeback anthem - l'autoesortazione di cui aveva bisogno per imprimere una svolta alla sua traiettoria. E in effetti il nomignolo di "Space Cowboy" gli sarebbe rimasto incollato per tutto il fortunato prosieguo della sua carriera.

"Space Cowboy" è sfruttato fuori dal Regno Unito come singolo di lancio per l'album: in Italia "Musica e Dischi" gli riconosce un sesto posto in classifica mentre la graduatoria dell'airplay di "Music & Media" lo colloca terzo. Quanto all'album, "The Return Of The Space Cowboy" raggiunge la seconda posizione nella classifica britannica e la quarta in quella francese. I successivi album faranno ancora meglio in termini di successo, conquistando via via sempre più vette: "Travelling Without Moving" (1996) è il primo a piazzarsi nella Top 30 statunitense, "Synkronized" (1999) è primo in Gran Bretagna, Australia e Germania, mentre "A Funk Odyssey" (2001) guadagna la sommità anche in Francia e in Italia.
Lo stile di questi dischi è sempre ineccepibile e via via più energico e ballabile: il riscontro del pubblico è pienamente giustificato, ma grazie al suo equilibrio precario, "The Return Of The Space Cowboy" riveste un ruolo speciale nel percorso della band. Con un piede nelle levigatezze fusion degli esordi, un altro proteso verso l'irresistibile immediatezza dei singoloni a venire, e animato da un'irrequietezza che non cerca soluzione ma movimento, riesce a tradurre il caos in forma, l'incertezza in apertura. Senza raggiungere un compromesso né individuare - ancora - un vero e proprio metodo, dà vita a un effimero punto di contatto fra instabilità, controllo e libertà.

08/06/2025

Tracklist

  1. Just Another Story
  2. Stillness In Time
  3. Half The Man
  4. Light Years
  5. Manifest Destiny
  6. The Kids
  7. Mr. Moon
  8. Scam
  9. Journey To Arnhemland
  10. Morning Glory
  11. Space Cowboy

Jamiroquai sul web