C'è stato un tempo in cui Joan Baez era "solo" una promettente e luccicante folksinger. E non "soprattutto" la storica fidanzata di Bob Dylan o l'attivista politica ultra-impegnata per i diritti civili che cantava "We Shall Overcome" alla marcia di Martin Luther King a Washington e incideva album a sostegno della causa cilena e in ricordo di Salvador Allende; senza contare l'apporto, quantomeno emblematico, per tante altre cause, come la salvaguardia dei diritti di gay e lesbiche, il movimento ambientalista, l'opposizione alla pena di morte e quella per l'invasione degli Stati Uniti in Iraq nell'ormai lontanissimo 2003.
È il 1960 e la futura icona delle battaglie per i diritti umani non ha ancora "assaporato" i flash dei fotografi o gli applausi delle comunità hippie. Dopo aver cantato l'anno prima, appena diciottenne, al Newport Folk Festival, la giovane Joan decide di chiudersi per una manciata di giorni nella sala da ballo del Manhattan Towers Hotel di New York, per registrare il suo primo omonimo album. A farle compagnia sono solo le corde della sua inseparabile Martin e Fred Hellerman dei The Weavers, pronto ad accompagnarla alla seconda chitarra nelle canzoni che la cantautrice desidera riproporre alla propria maniera. Sì, perché "Joan Baez" è un album di cover, perlopiù di brani tradizionali riarrangiati secondo il suo verbo, ossia scarnificati in toto per dare spazio alla sua splendida (e inconfondibile) voce, in grado di estendersi di tre ottave, e alla chitarra che suona come se stesse pettinando la chioma di un angelo.
Canzoni popolari, dunque, che la diciannovenne Joan sceglie con cura, variandone spesso anche i testi, come nell'introduttiva "Silver Dagger", riletta in chiave femminile (e femminista), restituendo così quella che poi diventerà la versione più famosa di una ballata inglese di cui esistono un'infinità di varianti, talvolta mescolate ad altre canzoni, e risalente agli inizi del XIX secolo.
My daddy is a handsome devil
He's got a chain five miles long
And on every link a heart does dangle
Of another maid he's loved and wronged.
Go court another tender maiden
And hope that she will be your wife
For I've been warned and I've decided
To sleep alone all of my life
Lo stile della Baez è unico nel suo genere. Ovviamente non tanto per l'assetto chitarra/voce, ma per il canto che inonda leggerezza, passione, gioia, lamento, grazie all'ugola che ha il dono di spiccare il volo sempre e comunque. Siamo distanti anni luce dal piano/voce di Molly Drake o dal jazz cullante di Blossom Dearie. E lontanissimi dai bollenti spiriti di Connie Francis. Nelle interpretazioni di Joan Baez, prende anima e corpo lo spiritualismo cristiano alla base della sua infanzia. Una fede che porterà la giovane Joan a convertirsi in futuro al quaccherismo.
Il canto, quindi, si fa spesso preghiera. Per inciso: mai contemplativa e devozionale. Joan canta infatti di padri cattivi e infedeli. E riporta a galla le ballate più emotivamente intense della ricca tradizione anglofona. A cominciare dalla successiva "East Virginia", che negli anni a venire sarà interpretata anche da Sandy Denny, che la Baez fa sua in una versione intimamente ineccepibile, con il canto, ancora una volta da usignolo ferito ma mai domo, e l'arpeggio al solito mesto della chitarra. L'ugola si solleva poi dal palco della pista da ballo newyorkese per raggiungere l'esosfera in "Fare Thee Well (10,000 Miles)", ballata inglese risalente agli inizi del XVIII secolo, ripresa negli anni anche dai "vari" Pete Seeger, Fred Neil, Bob Dylan e Dave Van Ronk. Il canto di Joan Baez anticipa quello di altri "usignoli" della scena folk americana. Su tutte Joni Mitchell. Ma anche cantautrici meno note ai più, e non per questo poco estrose o preziose, come la misconosciut(issim)a Collie Ryan e la spesso dimenticata Buffy Sainte-Marie. Al di là dell'arcinota influenza che la Baez esercitò su Bob Dylan, che già da sola le darebbe un posto tra le pietre miliari della musica tutta, è in particolare il modo di cantare (e accompagnarsi con la chitarra) a ispirare nei decenni successivi centinaia di cantautrici folk.
Ci sono poi le cover di canzoni meno "attempate", ossia diverse dalle cosiddette "child ballad", dunque quantomeno risalenti, secondo svariati studi, ai primi del Novecento, come "House Of The Rising Sun", brano tradizionale diffusosi nella regione degli Appalachi. Un'altra perla folcloristica, di cui moltissimi ricorderanno nella versione degli Animals, che la Baez fa sua in una variante ancora una volta magicamente dimessa.
Si diceva di una Baez non ancora ventenne, immune dal sacro fuoco dell'impegno civile, ereditato, come la fede religiosa, dalla famiglia, nello specifico dal padre Albert, fisico rinomato che rifiuterà di partecipare al Progetto Manhattan, alimentando così per sempre l'anima pacifista della figlia Joan. E di una ragazza radiosa, ancora splendente come il Sole, perché ignara delle ombre che la perseguiteranno di lì a poco per un amore, non corrisposto del tutto, di nome Bob. Una cantante che non ha dato ancora prova delle sue potenzialità compositive, lasciando libero sfogo all'innato talento interpretativo. Ma che proprio per questo riesce, evidentemente, a sugellare l'avvento di una formula (av)vincente. Se infatti esistono dischi come "The Covers Record" di Cat Power, dove le versioni originali vengono dapprima essiccate e poi stropicciate con arcano furore tramite il canto perennemente afflitto e inconsolabile, è anche perché nel 1960, ossia esattamente quarant'anni prima, affiora in superficie un capolavoro come "Joan Baez", pubblicato per interposta Vanguard, etichetta all'epoca poco nota e preferita dalla statunitense alla più blasonata Columbia.
E ancora la pastorale "All My Trials", a reclamare libertà a Dio. Nel libro "The Joan Baez Songbook" (1964), Maynard Solomon (musicologo e cofondatore della Vanguard), peraltro, ipotizza che si tratti di un brano gospel americano risalente alla prima metà dell'Ottocento, che raggiunse successivamente le Bahamas, dove si trasformò in una ninnananna, mentre la versione originale venne dimenticata. A metà del Novecento, durante il revival della musica folk, il brano ha poi fatto ritorno negli Stati Uniti dalle Bahamas.
Il folclore in scia country emerge invece a chiare lettere e in tutto il suo infinito splendore tra gli arpeggi di "Winwood Flower", canzone composta nel 1860 da Joseph Philbrick Webster, e portata al successo nel 1928 dal trio The Carter Family, che ne pubblicò una versione storica, considerata uno dei brani che popolarizzò la musica country. La Baez ne propone un copia quasi fedele, puntando l'accento sul testo che esplica rinascite, cadute, ore buie da rimpiangere e fiori selvatici persi per sempre. C'è poi anche "Donna Donna", versione inglese di un brano in yiddish scritto nel 1941 da due membri della comunità ebraica di New York, il compositore Sholom Secunda e lo scrittore Aaron Zeitlin, il cui titolo originale è "Dos Kelbl", che la Baez modella in parte nelle parole senza intaccarne l'anima ideologica che quantifica nella natura intrinseca del vitello la sua inevitabile condanna. Una metafora scritta per spiegare la suprema indifferenza di Madre Terra.
On a wagon bound for market
There's a calf with a mournful eye
High above him, there's a swallow
Winging swiftly through the sky
How the winds are laughing
They laugh with all their might
Laugh and laugh the whole day through
Non poteva mancare l'amore eterno, indissolubile, che non teme inganni o prove del fuoco, al centro dei versi di "John Riley", ispirati dall'Odissea di Omero e interpretati attraverso la tradizione della ballata popolare inglese del XVII secolo, che la Baez canta con il consueto pathos. Bluegrass e cenni all'Antico Testamento emergono poi in "Little Moses", a conferma della fede cristiana, così come la canzone popolare celtica viene esaltata nel dramma che portò alla morte di Mary Hamilton, che suggella la filastrocca dell'omonimo brano scozzese del XVI secolo, o sulle note della famosissima "Henry Martin", che invece racconta le gesta epiche di un marinaio, Andrew Barton (1466-1511), che si dedicò alla pirateria per sostenere i suoi due fratelli maggiori, in una sorta di Robin Hood meets John Dillinger del passato.
Ad alzare ulteriormente l'asticella, è l'omaggio al folclore sudamericano, che la Baez amplificherà quattordici anni dopo nell'epocale "Gracias a la vida", un album che contiene anche cover di Violeta Parra e Victor Jara. Avviene nella conclusiva "El preso numero nueve", canción ranchera scritta dal cantante e compositore messicano Roberto Cantoral, incisa per la prima volta nel 1956 da Ana María González.
È l'ultima meraviglia di un disco dal candore ineguagliabile nella carriera di Joan Baez, che poco dopo inizierà la propria ascesa nell'olimpo della musica popular americana. Tantissimi ricorderanno ovviamente il suo singolo più celebre, "Diamonds & Rust", e altri magari anche la poco citata "Here's To You", canzone composta con Ennio Morricone nel 1971 e inserita nella colonna sonora del film "Sacco e Vanzetti" di Giuliano Montaldo. Si potrebbe continuare sicuramente per altre centomila battute su carriera, dischi, ritiri, ritorni e vicende umane, sociali e politiche di Joan Baez. Ma una cosa è certa: nulla potrà mai illuminare la scena folk quanto l'intrinseca purezza dell'omonimo esordio. L'Arché di una carriera unica.
* Si ringrazia Federico Romagnoli per il prezioso contributo
18/08/2024