Joan Manuel Serrat

Mediterráneo

1971 (Zafiro)
nueva canción española, chamber folk

Joan Manuel Serrat, da Barcellona, è colui che più di ogni altro incarna la figura del cantautore in Spagna. La sua discografia è divisa fra album in castigliano e altri in catalano, lingua alla cui rilevanza culturale ha sempre espresso il massimo sostegno, pur essendo contrario all'indipendenza della Catalogna, che non ritiene economicamente in grado di sopravvivere senza il supporto della Spagna. Questo articolo si concentra su "Mediterráneo", suo ottavo album, quarto in castigliano: senza voler sminuire la cultura di provenienza dell'autore, egli stesso considera la produzione nella lingua nazionale al pari di quella della propria regione. Inoltre, l'impatto del disco specifico è stato tale da far risultare la scelta quasi obbligata.

Come già altri suoi album, "Mediterráneo" è stato registrato a Milano, negli studi della Fonit Cetra, col supporto del tecnico del suono Plinio Chiesa (l'attrezzatura era all'epoca superiore a quella disponibile nell'arretrata Spagna franchista). Differentemente da altre volte però, in cui gli arrangiamenti e la produzione erano affidati esclusivamente a musicisti spagnoli, in questa occasione Serrat ha voluto il coinvolgimento di una delle grandi eminenze grigie della musica italiana: così, la direzione dei lavori è stata affidata congiuntamente a Juan Carlos Calderón e Gian Piero Reverberi.
Calderón era all'epoca uno degli astri nascenti della propria scena e i suoi arrangiamenti avevano già supportato cantautori come Luis Eduardo Aute e lo stesso Serrat, dando di fatto un forte impulso alla nascita di una scena locale poi denominata nueva canción española, emersa proprio dalla Catalogna negli anni Sessanta e poi destinata a segnare l'intera cultura nazionale con i suoi testi metaforici, spesso in contrasto con i precetti del franchismo, benché impossibilitati a essere apertamente militanti.
Reverberi non ha invece bisogno di particolari presentazioni, almeno per chi conosca l'abc della musica popolare italiana.

Forse perché la mia fanciullezza continua a giocare sulle tue spiagge,
tra le tue canne dorme il mio primo amore.
Porto la tua luce e il tuo odore con me ovunque vada,
e ammucchiati sulla tua sabbia
conservo amore, giochi e pene, io,
che porto sulla pelle il sapore amaro del pianto eterno
che hanno versato in te cento paesi, da Algeciras a Istanbul,
affinché dipingessi di blu le tue lunghe notti invernali,
e a forza di disavventure,
la tua anima è profonda e oscura,
e ai tuoi tramonti rossi si sono abituati i miei occhi,
come il tornante alla strada.
Sono cantore, sono bugiardo, mi piace il gioco e il vino,
ho l'anima di un marinaio.
Che cosa ci posso fare se io sono nato nel Mediterraneo?
E ti avvicini e te ne vai dopo aver baciato il mio villaggio,
giocando con la marea, te ne vai pensando di tornare,
sei come una donna profumata di catrame,
che si desidera e si ama,
che si conosce e si teme.
Se un giorno, per mia disgrazia, verrà a cercarmi la parca,
spingete la mia barca nel mare con un vento di levante autunnale,
e lasciate che la tempesta distrugga le sue ali bianche,
e seppellitemi senza lutto,
tra la spiaggia e il cielo,
sul fianco di una montagna più alta dell'orizzonte,
voglio avere una buona vista,
il mio corpo sarà un cammino, darò verde ai pini
e giallo alla ginestra,
vicino al mare, perché io
sono nato nel Mediterraneo
Si dibatte spesso sul confine tra cantautorato e poesia, ma nella title track, che apre la scaletta, questo confine Serrat lo oltrepassa eccome, proprio alla maniera del mare che canta, che abbatte ogni confine e lo travalica.
Il Mediterraneo di Serrat è una distesa d’acqua che non divide, bensì congiunge: la Spagna al Marocco, i Balcani alla Francia, la Siria alla Grecia, l’Italia alla Turchia e così via. Il centro placido e risplendente, che bagna e dona colori a un abbraccio tra terre, ignaro e indifferente a qualsiasi divisione imposta da militari e governi.
Questa visione, nella quale la sagoma di Serrat si confonde come sulla celeberrima copertina dell'album, è un grido di libertà più forte e universale di tante liriche antibelliche. Scritta durante il ritiro al monastero di Montserrat, dove si rinchiuse con altri artisti in opposizione al processo franchista di Burgos, la poesia è stata poi poggiata su un arrangiamento di chitarra brioso, sospinto dagli interventi di flauto e dalle scoppiettanti fioriture d’archi, insinuante come una brezza marina.
Nonostante non contenga alcun riferimento alla dittatura o ai conflitti del 1971 spagnolo, in patria quasi nessun brano gode della considerazione da canzone di protesta di “Mediterraneo”.
 
È altrettanto universale il messaggio che la successiva “Aquella Pequenas Cosas” racchiude tra un lento arpeggio di chitarra acustica e drammatiche striature di violino. Serrat riflette qui sul valore di quei dettagli racchiusi nella memoria e capaci di scatenare sentimenti travolgenti come malinconia e tristezza.
Uno crede che le abbiano uccise il tempo e l'assenza,
ma il loro treno ha venduto il biglietto di andata e ritorno,
sono quelle piccole cose
che ci ha lasciato un tempo di rose,
in un angolo, in un pezzo di carta o in un cassetto.
Come un ladro ti osservano dietro la porta,
ti hanno così in loro potere,
come foglie morte
che il vento trascina qui o là,
che ti sorridono tristi e
ci fanno piangere quando nessuno ci vede
I ricordi riaffiorano anche verso il finale del disco, nella uggiosa “Barquita de papel” (barchetta di carta). I giochi e l’immaginazione dei bambini fanno da contraltare alle difficoltà pratiche e cognitive della vita da adulti, ma diventano anche un vecchio porto sicuro dove ormeggiare quando si è sopraffatti dalle vicissitudini.

La libertà cantata da Serrat, indiscussa protagonista della scaletta, non si riduce a confini geografici, è un sentimento profondo e inebriante che andrebbe respirato in ogni momento della vita di ciascuno. Così quella che in apparenza sembra una canzone d’amore, “La mujer que yo quiero”, è qualcosa di più: un inno alla necessità di vivere una relazione sentimentale incuranti di imperfezioni e commenti altrui (nel contesto della canzone, quelli dei suoi genitori), di poter scegliere qualcuno che sia perfetto per sé e basta. Nel secondo verso appare anche una stoccata alla morale cattolica, da non sottovalutarsi nel contesto della Spagna di Franco:
La donna che io amo non ha bisogno
di bagnarsi ogni notte nell’acqua santa.
Ha molti difetti, dice mia madre,
e troppe ossa, dice mio padre.
Ma lei è più verità del pane e della terra,
il mio amore è un amore che viene da prima della guerra.
Per saperlo, la donna che io amo non ha bisogno
di sfogliare ogni notte una margherita
Oltre ai soliti archi, in quello che è in tutta probabilità l’arrangiamento più rigoglioso dell’intero disco, ad avvolgere il baritono sospiroso di Serrat troviamo qui campanelle, corde pizzicate come un carillon e soavi cori femminili. È molto forte la presenza della mano di Reverberi e del modus operandi che aveva utilizzato e avrebbe utilizzato con diversi cantautori italiani (Lucio Battisti, Lucio Dalla, Fabrizio De André, Gino Paoli).

La caratura da poeta di Serrat emerge con forza quasi violenta in “Pueblo blanco”. Interamente composto in eptasillabi e immerso in un arrangiamento spettrale di chitarra acustica e archi sferzanti, il brano si divide in tre sezioni. Nella prima il cantautore descrive un paesetto rurale dell’Andalusia – per alcuni Mojácar, per altri Belchite (il paese natio della madre, dove Serrat stesso ha trascorso l’infanzia) – facendo quasi vivere a chi ascolta l’aridità di certo sud della Spagna, ma anche il suo immutabile incanto:
Appeso a un burrone
dorme il mio villaggio bianco,
sotto un cielo che, a forza
di non vedere mai il mare
si è dimenticato di piangere.
Per le sue viuzze di polvere e pietra,
per non esserci passata neppure la guerra,
solo l'oblio cammina lentamente lungo il vallone,
dove non cresce un fiore,
né un pastore transuma
Nella parte successiva, invece, il menestrello introduce alcune figure della popolazione, in particolari giovani, svelando le loro preoccupazioni e i loro crucci, per poi invitarli nella terza a un doloroso addio:
Fuggite, gente tenera,
che questa terra è malata,
e non aspettate domani
ciò che non vi ha dato ieri,
perché non c'è niente da fare,
prendete la vostra mula, la vostra donna e il vostro carico,
seguite la strada del popolo ebraico
e cercate un'altra luna,
forse domani sorriderà la fortuna,
e se vi toccherà piangere,
è meglio farlo davanti al mare
"Que va a ser de ti" ("Cosa sarà di te, lontana da casa, piccola mia", come continua la canzone) è il grido del padre di una ragazza che lascia casa per emanciparsi, dopo essere maturata al ritmo metaforico del susseguirsi delle stagioni. Il brano è tanto brioso e lieto nella prima parte, quella che racconta il desiderio di libertà della ragazza, quanto più cupo nella seconda, in cui a venire scoperchiato dal coro in crescendo è il vuoto che lascia nei genitori, abbandonati in un nido ora ricolmo di preoccupazioni e solitudine.
A trasparire è ancora l’importanza vigorosa della libertà per il cantautore, che va perseguita anche al costo di lasciarsi indietro le radici, siano esse carnali o geografiche. Anche in questo caso il sottotesto sfida la morale cattolica, tramite la mancata obbedienza ai genitori e l'allontanamento della protagonista dal focolare domestico.

Al contrario priva di malinconia, e sospinta da un arrangiamento che fa succedere chitarre solenni a archi e percussioni scroscianti, “Vagabundear” è un inno all’abbattimento di ogni confine, intriso di un'ostilità al nazionalismo franchista neanche troppo sottile:
Stanco di essere stanco, mi sono stancato
di chiedere al mondo perché e perché,
la rosa dei venti mi dovrà aiutare
e d'ora in poi mi vedrete vagabondare
tra il cielo e il mare,
vagabondare come una cometa di canna e di carta,
andrò dietro una nuvola per esserle fedele,
ai monti, ai fiumi, al sole e al mare,
a loro che mi hanno insegnato il verbo amare,
sono un piccione viaggiatore,
lasciatemi in pace.
Non mi sento straniero in nessun luogo,
ovunque ci sia fuoco e vino, ho la mia casa,
e per non dimenticarmi di ciò che sono stato,
la mia patria e la mia chitarra le porto dentro di me,
una è forte e fedele,
l’altra un pezzo di carta.
Non piangere perché non resterò,
mi hai dato tutto ciò che sai dare,
l'ombra che nel pomeriggio cade su un muro
e il vino che mi aiuta a dimenticare la mia sete,
cosa può offrire di più una donna.
È bello partire senza dire addio,
sereno lo sguardo, ferma la voce,
se veramente mi cerchi, mi troverai,
il cammino è troppo lungo per guardare indietro,
che importa, qui o là

“Lucia” ha invece le spoglie di una lettera a una vecchia amante, un amore perduto e mai dimenticato che cavalca un arpeggio di pianoforte che si fa via via, col riaffiorare di ricordi e rimpianti, più teso e lacerante. La canzone si chiude quasi bruscamente, inghiottita da un repentino e inaspettato scoppio d’archi: segno che per Serrat i ricordi e i sentimenti che essi causano sono importanti, ma è altrettanto importante ripartire.
“Tio Alberto” è dedicata ad Alberto Puig Palau, un aristocratico barcellonese dell'epoca noto per il suo impegno come mecenate, il suo supporto al flamenco e ai gitani (fonte: Sebas E. Alonso per "Je ne sais pop", 16 novembre 2021):

Zio Alberto ha assaggiato tutti i vini,
ha camminato per mille sentieri
e ha attraccato porto dopo porto
tra la rovina e la ricchezza,
tra bugie e promesse,
sa ancora sorridere, zio Alberto
Ennesimo esempio dello stile di Serrat, al solito plastico nel mescolare folk spagnolo, aspetti della chanson francese e arrangiamenti moderni con elementi al confine fra il jazz (apporto di Calderón) e la musica da camera, in un suono pieno ma mai eccessivamente melodrammatico, la canzone ricorda lo zio come un personaggio resiliente, talvolta triste e disilluso, ma sempre carico di una dignità inscalfibile. La sua figura diventa così metafora di una parte di popolazione spagnola, abusata, soppressa, ma mai davvero vinta o doma.

Chiude i trentatré minuti del disco il suo brano più dichiaratamente politico, “Vencidos”, che mette in musica un poema di León Felipe, uno dei più importanti letterati spagnoli, morto in esilio in Messico nel 1968 dopo aver appoggiato il fronte repubblicano durante la guerra civile. I più celebri personaggi di Cervantes e i messaggi di Antonio Machado (altro poeta caro a Serrat, che nel 1969 pubblicò l'album “Dedicado a Antonio Machado, poeta”) simboleggiano i vinti del titolo, diventando, tra archi recalcitranti e una chitarra pizzicata nel modo di un menestrello medievale, la metafora delle vittime della dittatura franchista:
Per la pianura manchega
si rivede la figura
di Don Chisciotte passare,
e ora, oziosa e ammaccata,
va sul ronzino l'armatura,
e ozioso va il cavaliere,
senza pettorina e senza schiena,
va carico di amarezza,
che lì trovò sepoltura
il suo amorevole combattere
"Mediterráneo" viene pubblicato nel novembre del 1971, raggiunge il numero 1 della classifica spagnola il 27 dicembre e mantiene la vetta per ben 21 settimane, risultando l'album di gran lunga più venduto durante il 1972. A oggi è l'album di Serrat per antonomasia (che già sarebbe di per sé un riconoscimento importante, data la mole della sua carriera) e più in generale si è imposto fra i simboli della cultura spagnola e del cantautorato anni Settanta. Per la scena musicale italiana dell'epoca è un vanto notevole aver contribuito alla sua realizzazione.

09/02/2025

Tracklist

  1. Mediterráneo
  2. Aquellas pequeñas cosas
  3. La mujer que yo quiero
  4. Pueblo blanco
  5. Tío Alberto
  6. Qué va ser de ti
  7. Lucía
  8. Vagabundear
  9. Barquito de papel
  10. Vencidos




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