John Zorn

Naked City

1989 (Nonesuch)
avantgarde jazz, grindcore, soundtrack

New York, 31 dicembre 1989. Allo scadere di un anno cruciale nel rimodellare la storia del XX secolo, si conclude anche il terzo mandato di Ed Koch. Sotto la decennale amministrazione del sindaco democratico, la Grande Mela ha radicalmente mutato pelle: la città sull'orlo della bancarotta, terrorizzata dallo spadroneggiare delle gang e dalla follia omicida di David Berkowitz, si avvia a diventare la metropoli ben più masticabile che conosciamo oggi. Come in casi analoghi, si potrebbe discutere a lungo su chi abbia fatto le spese dell'imponente "riqualificazione", ma non è questo il luogo.
A livello nazionale, tuttavia, c'è poco di cui rallegrarsi. A cavallo tra l'era Reagan e quella Bush Sr. il paese è in pezzi: le disuguaglianze galoppano, l'Aids imperversa ancora e le avvisaglie dell'imminente Guerra del Golfo si fanno più pesanti. Nei bassifondi del Downtown newyorkese, di riflesso, continua a tirare una brutta aria. Come ai tempi della no wave, la risposta musicale è tanto aspra quanto sofisticata: declinare l'angoscia nella destrutturazione intellettuale anziché nella rabbia cieca.

Il John Zorn che si aggira per quelle strade buie non è ancora il beniamino dei festival highbrow: capelli a spazzola, chiodo e pantaloni militari, ama portare la custodia del sax sottobraccio a mo' di mitra, più Luciano Lutring che Tony Montana. I rapporti diplomatici tra jazz e rock non sono nuovi alla cattiveria, ma l'ultra-fusion dell'occhialuto ebreo errante alza l'asticella dell'efferatezza. Se James Chance puntava sull'atonalità, il focus di Zorn si sposta decisamente sulla violenza. Il riferimento non è più il (post-)punk, ma il metal estremo. I proiettili non sono dei singhiozzi scomposti, ma degli acuti da trapanare le tempie. La velocità passa da quella di un jet a quella di un Concorde.

Brutalità, dunque, ma funzionale a frantumare barriere più che a imporre visioni. L'altra parola d'ordine è pertanto eclettismo: con il free e il core a lavorare i fianchi da opposti lati, non c'è genere immune dall'infezione. E se l'idea è riscrivere il vocabolario, quale miglior materia prima delle colonne sonore cinematografiche, così prodighe di temi che penetrano l'immaginario? Morricone, Mancini, Goldsmith, Barry: contro il muro, fucilati, rianimati, riadattati. La fischiettabilità si fa tortura, in quel limbo tra omaggio e beffa prediletto dal più sagace terrorismo musicale. La dittatura del caos è il tramite per la ristrutturazione della muzak. E come in tutti gli show che si rispettino, non possono mancare appositi intermezzi, in questo caso non per dissipare ma per incancrenire la tensione: le iniezioni grindcore praticate tra un episodio e l'altro sembrano jingle infernali più che numeri d'avanspettacolo. La postura è ben esemplificata da uno dei titoli: "Hammerhead".

Il cast, di pari passo, deve sapersi destreggiare tra intransigenza e malleabilità: la chitarra budinosa di Bill Frisell, il basso inafferrabile di Fred Frith, la subdola batteria di Joey Baron, le tastiere citazioniste di Wayne Horvitz. Ciliegina avvelenata, le sfuriate isteriche di Yamataka Eye, equivalente canoro (?) dell'ancia del bandleader. La sigla (per adesso solo dell'album, più tardi anche dell'ensemble) è cruda al punto giusto: "Naked City", che è come dire Burroughs + Chandler. Fronte in bianco e nero ("Corpse With Revolver" del fotoreporter statunitense Weegee), retro a fumetti (un'illustrazione del truculento mangaka Suehiro Maruo) e il sanguinolento piatto è servito. Se il jazz è musica notturna par excellence, quello di Zorn è un inno alla notte dell'anima, individuale e collettiva.

E ora veniamo ai contenuti. Cinema (nerissimo), ma non solo. I temi de "Il clan dei siciliani", "Il disprezzo", "Chinatown", addirittura "James Bond" vengono sacrificati senza sacrificarne l'epos, ma l'autore si spinge a inventarne di apocrifi (l'iniziale "Batman", vademecum zorniano come pochi) o a eleggerne di nuovi frugando tra gli standard del jazz oltranzista ("Lonely Woman" del maestro Ornette Coleman, IL manifesto anti-armonico, qui proposto in medley con la non meno epocale "School Work"). I titoli provocano e/o minacciano ("Igneous Ejaculation", "Blood Duster", "Demon Sanctuary"), ma è difficile non scorgere l'ironia tutta ebraica con cui vengono parodiati surf ("You Will Be Shot"), swing ("Latin Quarter"), country ("N.Y. Flat Top Box"), bop ("Inside Straight"). Ridotto a macchietta o in poltiglia, lo scibile musicale del secolo breve può già considerarsi in pensione.

Sull'effettiva data di uscita gravano controversie inestricabili: l'anno che abbiamo indicato è quello d'incisione, su cui non sembrano sussistere dubbi. L'esperimento Naked City proseguirà per una manciata di anni (a partire dal seguito "Grand Guignol", dedicato stavolta alla classica contemporanea e che frutterà a Michael Haneke l'agghiacciante commento di "Funny Games"), poi l'incontenibile Stachanov si dedicherà ad altro, trionfando artisticamente con lo straziante "Kristallnacht" (1992) e "commercialmente" con la saga Masada e l'epopea Tzadik. La radicalità, la fantasia e lo spasso di queste 26 tracce rimarranno però ineguagliate.
Punto d'arrivo di un decennio votato alle contaminazioni impossibili, "Naked City" suggella il trapasso a peggior vita del jazz con una forza d'idee e un dispiegamento di talenti cui non si assisteva dai tempi di "Bitches Brew".

02/03/2025

Tracklist

  1. Batman
  2. The Sicilian Clan
  3. You Will Be Shot
  4. Latin Quarter
  5. A Shot In The Dark
  6. Reanimator
  7. Snagglepuss
  8. I Want To Live
  9. Lonely Woman
  10. Igneous Ejaculation
  11. Blood Duster
  12. Hammerhead
  13. Demon Sanctuary
  14. Obeah Man
  15. Ujaku
  16. Fuck The Facts
  17. Speedball
  18. Chinatown
  19. Punk China Doll
  20. N.Y. Flat Top Box
  21. Saigon Pickup
  22. The James Bond Theme
  23. Den Of Sins
  24. Contempt
  25. Graveyard Shift
  26. Inside Straight

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