Durante gli anni Novanta, il metal ci ha regalato una lunga serie di capolavori, dischi tuttavia ben lontani da quanto proposto nel decennio precedente (un’epoca ovviamente dominata da sonorità più classiche di stampo heavy-speed, in attesa della grande ondata thrash). Parliamo, dunque, di un periodo nel quale è esploso definitivamente il death metal, seguito a ruota dal black e poi ancora dal gothic, senza dimenticare le tante contaminazioni tra diversi sottogeneri che hanno fatto la fortuna di numerose realtà sbucate fuori da ogni angolo del pianeta.
Gli svedesi Katatonia, all’inizio della loro carriera, imboccarono proprio questa seconda strada.
Partiamo dalla prima metà dei 90's: il connubio tra death e doom si già era manifestato sotto svariate forme, sia attraverso episodi isolati (pensiamo al poderoso “Into Darkness” dei newyorkesi Winter) sia grazie a una scena ben definita, come quella anglosassone della gloriosa triade composta da Anathema, My Dying Bride e Paradise Lost. Parallelamente, in Svezia, si stavano muovendo con successo i Tiamat di Johan Edlund e i Katatonia, questi ultimi saliti alla ribalta con un debut ad alta intensità, “Dance Of December Souls” (1993), uscito su No Fashion. Ad ogni modo, è con il passaggio alla nostrana Avantgarde che gli scandinavi alzano l’asticella, prima con un ottimo Ep di quattro tracce (“For Funerals To Come...”) e poi con l’insuperabile “Brave Murder Day”, un album capace di prendere le distanze da tutto e da tutti, a cominciare da una copertina di grande impatto (il logo della band, inizialmente quasi illeggibile per via del suo colore violaceo, fu poi sostituito con un altro identico ma in bianco e nero). A Stoccolma, soffiava un vento carico di sinistri presagi.
Se in terra britannica tali sonorità si sposavano alla perfezione con dei riferimenti romantici, allegorici o di stampo letterario (pensiamo al nome stesso dei Paradise Lost), “Brave Murder Day” intraprese un percorso di ben altra sostanza, scegliendo un approccio bleak, depressivo e desolante. Non a caso, nel background del gruppo, non mancavano riferimenti di stampo dark, all’epoca già messi in pratica con la registrazione di un pezzo di chiara matrice gothic-rock, “Scarlet Heavens”. Inoltre, i due fondatori Jonas Renkse e Anders Nyström erano anche fan degli Slowdive e delle più languide sonorità shoegaze.
“Speaking to someone, breaking the windows, this house is dead, the sound of falling when the pictures are moving between the memories”. I dieci minuti di “Brave” irrompono in maniera devastante: il riff principale è un cappio al collo che ci trascina via, mentre le harsh vocals di Mikael Åkerfeldt (amico e collaboratore temporaneo dei Katatonia, nonché storico membro degli Opeth) fanno il resto, dipingendo un paesaggio buio, doloroso e opprimente. Il brano è spezzettato, rallenta, affonda, si apre sovente alla melodia, per poi ritornare al punto di partenza, come un ciclo vitale che termina con la morte. C’è da dire che oltre all’aspro contributo di Åkerfeldt, la band può contare sul sostegno di un secondo chitarrista da poco approdato alla base (Fredrik Norrman), un tassello importante che si affianca ai succitati leader Renkse e Nyström (che qui si fa ancora chiamare Blackheim).
“Murder” è più breve, ma non meno intensa: la chitarra si fa strada come un soffio gelido, dilaniando un mucchio di carcasse abbandonate al loro destino. L’atmosfera è desolante, è un paesaggio da brividi. Siamo dalle parti del capolavoro, perché con un brano del genere è possibile avvertire un sussulto profondo capace di squarciare in due le viscere dell’ascoltatore. Sogno o realtà? Ci troviamo in bilico, sospesi tra una dimensione onirica e una più terrena. Non a caso, la successiva “Day” ci trascina dentro uno straniante universo surreale, dove la depressione si può ormai toccare con mano. “Grey park look the same, all the days are pale” sussurrano le labbra di Jonas Renkse (sue le clean vocals) in questa ballata acustica dai risvolti mortiferi. Sotto certi aspetti, si tratta di un pallido accenno di ciò che i Katatonia metteranno in pratica da lì a poco con la svolta degli scoraggiati.
Superato il giro di boa, l’opera torna a mostrare le nere unghie, questa volta con un tono più malsano e aggressivo: l’incipit di “Rainroom” ti aggancia e ti lascia soccombere sotto la tormenta, in attesa dell’apertura melodica più sontuosa dell’intero disco, posta dopo neppure due giri di lancetta. Una volta spiccato il volo, il brano si contorce tra la neve soffice di un break rilassante (ancora Renske sugli scudi), per poi ripiombare giù all’inferno, tra le catacombe dell’anima.
“12” rappresenta il lato più heavy di questi svedesi (la componente doom metal emerge con prepotenza), anche se c’è da dire che il pezzo è tutt’altro che inedito, trattandosi di un rimaneggiamento di “Black Erotica” (una versione meno efficace pubblicata tempo prima su una compilation). Il testo è tetra poesia: “black theatre of love, violet dances cast their blood, the moon gave me flowers, for funerals to come”.
Funerali che non tardano a sopraggiungere, poiché “Endtime” ha un titolo programmatico che non lascia spazio ad alcuna speranza (“now fall into a vacant sphere, pierced by the darkness, they called it death and surrounded me with sleep”). Il brano è straziante, è una lama che affonda con chirurgica precisione nel nostro corpo, ritirandosi soltanto quando attorno a noi non c’è più nulla che possa scaldarci il cuore. L’arpeggio acustico, prima di congedarsi, viene affiancato da un lugubre sussurro estrapolato dal film “Shining”: “Because, for some people, solitude and isolation can, of itself, become a problem. Not for me”. Quando irrompe il riff, non c’è nemmeno il tempo per piangere, perché “Endtime” riesce a mettere in connessione l’eternità della musica con la fragilità della nostra esistenza, in un contrasto dagli esiti tragici e drammatici.
Registrato negli allora gettonati Unisound Studios di Dan Swanö (Edge Of Sanity, Bloodbath e tanto altro), “Brave Murder Day” fu originariamente pubblicato nella sua versione più cruda, per poi essere masterizzato soltanto nel 2006, quando sugli scaffali atterrò la ristampa della Peaceville (nella quale erano inclusi, in appendice, i brani presenti nell’Ep “Sounds Of Decay” di poco successivo). Sì, il mood contava di più rispetto alla produzione o alla (presunta) ricerca della perfezione, nel pieno rispetto dei canoni legati alla musica underground.
Questo è soltanto uno dei motivi per cui abbiamo scelto questo disco e non altri dei Katatonia. Perché, sia chiaro, la prolifica carriera degli svedesi ci ha regalato non poche soddisfazioni, anche nel corso del nuovo millennio, quello della svolta soft che ha avvicinato nuovi appassionati al suono degli scandinavi. Tuttavia, “Brave Murder Day” resta il loro album più influente e devastante, non solo per la corrente death-doom (da questi semi, prenderanno corpo feconde entità come i cugini October Tide o i finlandesi Swallow The Sun), ma per qualcosa che stava germogliando in gran segreto, contorcendosi nel dolore e nella disperazione: il depressive suicidal black metal.
Innanzitutto, proprio nel 1996, Anders Nyström aveva debuttato con un progetto parallelo denominato Diabolical Masquerade: “Ravendusk In My Heart”, pur abbracciando il lato melodico-sinfonico del metallo nero, stabiliva una forte connessione tra la musica dei Katatonia e quel versante quasi inaccessibile del metal estremo, un tempo ancora riservato a pochi eletti. In secondo luogo, gli strazianti nonché ronzanti riff e le atmosfere stesse di “Brave Murder Day” porranno le fondamenta per il succitato DSBM, assieme alle nevrotiche evoluzioni dei malsani Bethlehem o alle derive più rarefatte dei vari Burzum e associati.
In Svezia, ad esempio, nomi di assoluto rilievo come gli Shining di Niklas Kvarforth o come i compianti nonché eccezionali Lifelover, non sarebbero mai esistiti senza conoscere l’alfabeto katatonico, quello composto da un guitar-work lacerante oltre che annichilente. Stesso discorso per gli italianissimi Forgotten Tomb (altra importante realtà depressive black legata a doppio filo con le nere evoluzioni del prodotto qui in esame), senza dimenticare l’eredità raccolta da un’infinità di cult band provenienti dai luoghi più disparati del globo (un nome su tutti, i georgiani Psychonaut 4).
È dunque sorprendente constatare il peso specifico di “Brave Murder Day”, sia nel suo percorso verticale che nei suoi affondi trasversali, tanto inconsapevoli quanto illuminanti per l’epoca. Si tratta - come già specificato in apertura - di un unicum nel suo genere, anche perché, i Katatonia di “Dance Of December Souls” erano ancora profondamente doom-oriented, mentre in patria si respirava soltanto a sprazzi qualcosa di assimilabile alla loro musica (dai primissimi Opeth - più che altro per via di un’affiliazione sanguinea - ai poco celebrati Ophthalamia, anch’essi da Stoccolma e con Jon Nödtveidt dei Dissection dietro al microfono).
Da qui, scivoliamo verso un ultimo dato, non meno importante. Questa valorosa release fu elaborata dopo un breve periodo di pausa, in seguito a un break necessario in cui Nyström si era dedicato alla stesura del primo lavoro dei Diabolical Masquerade, al contrario di Renske, intenzionato a far muovere i primi passi agli October Tide. Due satelliti complementari, comunque minuscoli davanti al vero e solo obiettivo: cambiare le sorti dei Katatonia (oppure mandare tutto all’aria), apportando allo scheletro originario degli elementi sia di stampo dark che di matrice depressive-rock, oltre a una carica emozionale del tutto inedita, pregna di nera tristezza e di violacea rassegnazione.
La morte sbattuta in copertina può solo accompagnare, così come quell’urlo lancinante generato da queste note disperate. Inutile aggrapparsi con le unghie alla salvezza, “Brave Murder Day” nasce per destabilizzare la nostra mente e per ostruire ogni spiraglio di luce davanti ai nostri occhi.
03/12/2023