Low

The Great Destroyer

2005 (Sub Pop)
slow-core

Il 2 novembre 2004 George W. Bush, il presidente Usa della guerra al terrore che ha portato un conflitto senza “se” e senza “ma” in Afghanistan e in Iraq dopo l'attentato dell’11 settembre 2001, viene rieletto. “The Great Destroyer”, cioè il “figlio” dell’establishment della politica repubblicana, petroliere texano e cristiano rinato di fede metodista, ex-alcolista e figura opaca della storia americana che nell’arco di due presidenze, fatte di ampie zone d’ombra, è artefice dell’angoscia permanente e soffocante che domina il settimo album dei Low, nitidamente fosca fin dalla proemiale “Monkey”.

Il trio, composto dalla coppia di coniugi Mimi Parker (batteria, voce) e Alan Sparhawk (chitarre, voce) insieme a Zac Sally (basso), è cresciuto a Duluth nel gelido Minnesota, la città che ha dato i natali a Bob Dylan, dove ciascun membro ha coltivato il canto, la fede e la comunità. Fin da “I Could Live In Hope” (Vernon Yard, 1994) i Low hanno preso parte attiva al movimento slowcore plasmandone la forma con una personalissima cifra, che sembrava proprio partire dalle mura nude di una chiesa e dalla quiete di un luogo ovattato da neve e ghiaccio. Un suono che si è innervato tra i sentieri folk con lampi di noise e psichedelia, con cui il trio, con pochi strumenti, è stato in grado di sventrare gli abissi dell’anima partendo proprio dal silenzio più spaventoso ed esplorando grazia, disgusto, solitudine, beatitudine e dannazione.
La precedente prova della band, “Trust” (Kranky, 2002), scarna e crepuscolare, ci aveva emotivamente prosciugati affogandoci nel riverbero. Bastino a ricordarlo non solo la copertina ma anche due brani come “(That’s How You Sing) Amazing Grace”, il cui sinistro fraseggio di xilofono si interseca con le frustate del rullante, e “John Prine”, coi suoi rintocchi calmi e ferali. Da quel buco nero chiamato “fiducia” i Low ne escono con una esplosione, costantemente in cerca di quella redenzione, per loro e per noi, che una delle band elettivamente più vicina a loro come i Velvet Underground non aveva mai voluto trovare. Così Mimi, Alan e Zac provano ostinatamente a uscire dall’abisso e, nel caso di “The Great Destroyer”, lo fanno con un urlo dai tratti ginsberghiani.

Partendo ancora una volta dal comporre nella propria terra, la band si chiude poi in studio col produttore Dave Fridmann (Mercury Rev, Flaming Lips), che lo stesso anno è dietro al banco dei suoni di un altro album dal suono devastante, “The Woods” delle Sleater-Kinney (Sub Pop, 2005). Tutto viene fatto in casa: l’artwork viene disegnato da Zac, mentre le foto sono di Hollis, la figlia di Mimi e Alan. All’interno qualche credits e poche note: “What began in our living room in Duluth... ended in Fredonia... at Tarbox Road Studios, Cassadaga, NY”.
Il baratro si apre fin dalle distorsioni compresse e dagli organi ululanti di “Monkey”, innervati dal groove solido dei tamburi di Mimi e dallo strumming nudo della chitarra acustica di Alan, che ci tolgono subito l’ossigeno. Le voci di Alan e Mimi ci conducono per mano in un tunnel dove a malapena si può respirare, passando da una strofa crudele alle sferzate psichedeliche del ritornello in un paesaggio interiore che richiama “La strada” di Cormac McCarthy:

Now who’s to blame? You used to be the same
Now you won’t let me speak your name, what a shame
It's a suicide, shut up and drive
We're never gonna make the light
But it's alright

'Cause tonight you will be mine
Tonight the monkey dies

“California”, canzone dedicata alla madre di Alan e primo singolo tratto dall’album, pare creare una dimensione di dolcezza, familiarità e quiete dall’andamento indie-rock, che torna anche in “Just Stand Back”.
Ma la stasi è temporanea: presto i suoni confortanti di “California” con “Everybody’s Song” vengono ricondotti alle tensioni rutilanti della prima traccia, che, fin dall’apertura, squarcia la gentilezza delle sonorità precedenti con un feedback lancinante e delle macchinazioni industrial. L’insieme delle voci di Mimi e Alan, cielo e terra, si fonde col fuoco degli strumenti, in un altro brano di una bellezza devastante:

Mother why did I become
The angry son
The angry one

Breaking everybody’s heart
Taking everyone apart
Breaking everybody’s heart
Singing everybody’s song

La prima cosa che colpisce è il sound di “The Great Destroyer”: la chitarra di Alan sembra liberarsi dalla rigidità del suono clean/distorted degli album precedenti per farsi più ricca di sfumature, tra overdrive e fuzz, in grado di dosare delicatezza e rabbia. Brani come “Monkey” ed “Everybody’s Song”, con le loro distorsioni ipercompresse e i feedback penetranti, sono una novità per la band e ci portano direttamente, con un fast-forward, a quella che sarà l’ultima fase della loro carriera, indirizzata più al noise e alla drone music, come nel negativecore di “Double Negative” (Sub Pop, 2018). Rispetto al passato, anche i riverberi sono meno accentuati, le “stanze” di risonanza, infatti, si riducono per trasformare il suono più in “carne” dopo essere stato “spirito”.

Si procede per sottrazione, col folk soave di “Silver Rider” e l’electro-gospel di “Cue The Strings”, e per addizione, con la psichedelia di “On The Edge Of” o la nenia pop corrosa di “Step”, accompagnata dalla voce di Hollis.
Nell’atmosfera fosca dell’album, si resta in silenzio ad ascoltare il folk-spiritual di “When I Go Deaf”, che alterna la contemplazione delle voci della coppia, accompagnata dalla chitarra parlor, all’estasi strumentale del ritornello:

And we will make love
We won’t have to fight
We won't have to speak
And we won't have to lie

And I’ll stop writing songs
Stop scratching out lines
I won't have to fake
And it won’t have to rhyme

“Broadway (So Many People)” rappresenta una stazione sonora, una cantilena indie-rock che suona come una filastrocca e si trasforma in un canto sacro, anticipando il finale dell’album con uno dei brani più neri e sconvolgenti di tutta la carriera dei Low. “Pissing” è infatti un lento mantra ripetitivo che, come una spirale, porta dentro la notte più oscura, con echi di tazzine da caffè toccate inizialmente per rimanere con gli occhi sbarrati di fronte all’Apocalisse, che tuona su “alone”:

I can’t see
Sing the darker of
Pissing on my toes
Knowing what I know
I know
I’m waiting
Like a loyal whore
Under every stone
Lovers sleep alone
Alone
Alone
Lovers sleep alone
Alone
Alone

Un filo di speranza viene ridato dalla chitarra acustica e dalla voce di Alan in “Death Of A Salesman”, a richiamare il calore di una comunità riunita in ascolto in una piccola sala, ad ascoltare una storia probabilmente nota e proprio per questo ancora più calorosa. Il finale con “Walk Into The Sea” offre una prospettiva che arriva fino alla chiusura trasognata, col suo indie-rock melodico e robusto, la foga genuina e il senso della presenza dato dalle voci unisone di Mimi e Alan.

L’album esce il 25 gennaio 2005, a pochi giorni dal secondo insediamento di Bush Jr. alla Casa Bianca. È il primo disco che la band pubblica per l’etichetta di Seattle Sub Pop, che la accompagnerà fino all’ultimo “HEY WHAT” (2021), ed è il primo album in cui lo slowcore introspettivo e concavo della band assume una dimensione cosmica e convessa, conscio di essersi fatto rito di purificazione per le nostre orecchie e panacea per le nostre anime. La resa live è devastante, tanto che il trio nel 2010 sceglierà proprio “The Great Destroyer” quale album da riproporre nell’Auditorium del Primavera Sound di Barcellona, solo cinque anni dopo la sua uscita.
“The Great Destroyer” può assurgere ormai a classico dell’epopea nordamericana e della musica contemporanea: non solo songbook o concept, ma romanzo o raccolta di poesie e di salmi. Ascoltando di nuovo l’album a pochi giorni dalla dolorosa ricorrenza, rimpiangiamo ancora una volta la straordinarietà di un’artista come Mimi Parker, la cui voce in questo presente fragile e incerto ci manca quanto non mai.

04/11/2024

Tracklist

  1. Monkey
  2. California
  3. Everybody's Song
  4. Silver Rider
  5. Just Stand Back
  6. On the Edge Of
  7. Cue the Strings
  8. Step
  9. When I Go Deaf
  10. Broadway (So Many People)
  11. Pissing
  12. Death of a Salesman
  13. Walk into the Sea

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