Troppo spesso quando si parla di Lucio Battisti si pone particolare enfasi sul suo mito, sui pettegolezzi che lo circondano (sfociano nel ridicolo le leggende metropolitane che in sparuti casi ancora oggi gli attribuiscono l'appartenenza ideologica all'estrema destra), sul successo strepitoso che si seppe conquistare e che fu colonna sonora di un'Italia economicamente rampante e ottimista, finendo per rendere poca giustizia al vero fulcro della sua attività professionale: la ricerca e la sperimentazione musicale profonda, segnata dall'approccio di lavoro e dall'estetica anti-accademica della pop music. Se in vita se ne colse la distanza dall'accademia, da lui percepita come leziosa, non sempre si riuscì a coglierne il rigetto altrettanto deciso verso il nazional-popolare. Si arriva al paradosso di sentir spesso considerata la sua produzione con Pasquale Panella come una sorta di corpo estraneo, capriccio totalmente scollegato dal resto della sua carriera, quando in realtà si tratta di un proseguimento, senz'altro radicale, di una visione che aveva già trovato le sue solide fondamenta quantomeno dai primi anni Settanta. A metà del decennio, Battisti aveva già vissuto più fasi artistiche, l'ultima delle quali la più ardita e che lo condusse a realizzare tra il 1973 e il 1974 "Il nostro caro angelo" e "Anima latina", dischi a cavallo tra rock progressivo, Mpb e pop barocco.
Non pago dei risultati raggiunti e fresco di un lungo viaggio negli Stati Uniti in cui si sintonizza con le novità del funk e dell'emergente disco, rientra in Italia e nel 1975 assembla una nuova formazione, con la quale ritirarsi in studio per dar forma alle idee per il suo prossimo album.
La band che suona in "Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera", come raccontano numerose testimonianze, ha svolto un ruolo fondamentale per raggiungere quell'ibrido tra funk e pop d'autore che permea i solchi del disco. Alla batteria e al basso si trovano rispettivamente Walter Calloni e Hugh Bullen: entrambi molto giovani nel 1976 (classe 1956 Calloni e 1951 Bullen) ma già considerati promesse dei loro strumenti, avevano collaborato con Eugenio Finardi ed erano sessionmen dell'etichetta Cramps (in particolare, Bullen aveva anche suonato con gli Area). Alle tastiere c'è Claudio Maioli, presente anche in svariati altri classici della musica italiana, e alle chitarre un Ivan Graziani finalmente in rampa di lancio, dopo numerosi anni di gavetta. Questi ultimi due collaboreranno successivamente nei classici del cantautore abruzzese "I lupi", "Pigro" e "Agnese dolce Agnese". Alle sessioni di registrazione presero parte, non accreditati ufficialmente, anche Tony Esposito alle percussioni e Massimo Salerno, per le tastiere di "Ancora tu" (fonte: luciobattisti.info).
Soltanto per una canzone, "Io ti venderei", la formazione è diversa e vede suonare gli amici di lunga data del Volo: Alberto Radius alle chitarre, Bob Callero al basso, Gianni Dall'Aglio alla batteria e Gabriele Lorenzi alle tastiere; il risultato è comunque del tutto in linea con il resto del disco.
Mogol è come sempre autore di tutti i testi, nonché supervisore alla produzione, mentre Battisti si occupa di tutti gli arrangiamenti, della produzione e suona una moltitudine di strumenti, come si avrà modo di approfondire in seguito.
"Ancora tu" è già manifesto del nuovo corso: l'intro è un caleidoscopio di sincopi e incastri ritmici tra batteria e chitarre elettriche, congegnato in una maniera tale da far invidia alle più blasonate formazioni funk americane come Ohio Players o Isley Brothers. I primissimi secondi sono matematici e primordiali allo stesso tempo, secondo un binomio tipico della musica funk. Matematici, perché le due chitarre elettriche si risolvono come fossero un'equazione. Quella mixata nel canale sinistro suona gli accordi con una diteggiatura da accompagnamento standard in un'esecuzione chitarra-voce, su note medio-alte, e termina il riff alla fine del secondo quarto della battuta. Quella sul canale destro, invece, suona note alte e completa il suo riff, con tensioni armoniche di nona, sesta o con passaggi per semitoni, negli ultimi due quarti. Le due chitarre sembrano metaforicamente staffettisti che si passano il testimone. Primordiali, perché la cassa ha un suono compresso, potente, ma la sua scrittura ritmica è ricercata e lo stesso inizio del brano è così fulminante da sembrare non rifinito, come tagliato e montato ad arte da una jam session. I charleston disco, solitamente utilizzati come complemento ritmico, fungono da architrave, fondamenta dei primi venti secondi di canzone.
Gli elementi dell'introduzione sono lo scheletro del brano e non verranno più lasciati (cambieranno solamente alcune tensioni armoniche nelle frasi di chitarra), eppure a partire dal ventunesimo secondo si respira un'atmosfera completamente diversa. Tanto tagliente, essenziale e crudo è l'incipit quanto vellutato, dolce è il tappeto che accompagna l'ingresso del testo. La batteria si arricchisce di un ulteriore charleston, sovrainciso e suonato sul levare di ogni battito per enfatizzarlo, e del rullante che scandisce il secondo e il quarto battito della battuta. Si tratta di classici elementi ritmici della disco music. Tuttavia, senza la proverbiale cassa in quattro quarti il risultato finale suona decisamente più elaborato rispetto alla media del genere, senza rinunciare a una grande solidità. Il basso di Bullen è il ponte tra Richard Finch dei Kc & The Sunshine Band e Bernard Edwards degli Chic. Elementi cruciali del cambio di registro sono però le tastiere: il pianoforte elettrico, più evidente, rifinisce il groove di batteria e basso con rapidi passaggi di accordi, i più pregevoli dei quali sono le alternanze tra Fa diesis minore settima, Sol maj7 e di nuovo Fa diesis minore settima nel secondo ciclo di accordi della "strofa". Tali alternanze sono fondamentali nel non disperdere il tiro del brano, dal momento che proprio in quei momenti vi è un accordo, il Fa diesis minore settima, di due battute di durata, che contrasta con la scansione di un accordo per battuta mantenuto in tutto il resto della canzone.
Le altre tastiere, sebbene meno pervasive, rivestono un ruolo altrettanto importante nell'arrangiamento: si possono ascoltare numerosi interventi melodici suonati da una tastiera acuta, inserti che spesso hanno la funzione di doppiare la voce di Battisti, così come un costante synth string che, pur restando piuttosto in penombra nel mix, è decisivo nel dettare gli umori della canzone, con i suoi saliscendi di ottava.
Il lettore più attento avrà notato l'utilizzo delle virgolette quando si è parlato in precedenza di strofa. È difficile infatti definire la struttura di "Ancora tu", in quanto vi è sostanzialmente un'unica, grande ripetizione di quattro sequenze di accordi: Sol maj7, Re, Fa diesis minore settima, Si minore la prima, Sol maj7, Fa diesis minore ripetuto due volte, Si minore la seconda, Si minore, La maggiore, Sol maj7, La maggiore le ultime due. Si potrebbe pertanto individuare nella canzone o un unico grande ritornello o un'unica grande strofa, con due cicli di "A" e "B" che si alternano tra loro. Vi è ad ogni modo la chiara presenza di uno "special" che spezza drasticamente l'inerzia al minuto 3:13: se fino a quel momento si era in territorio armonico di Re maggiore o di Si minore a seconda di come la si voglia interpretare, l'ingresso di un Si maggiore in corrispondenza della frase "Disperazione e gioia mia/ Sarò ancora tuo, sperando che non sia follia" è inaspettato e prepara il terreno per la modulazione ascendente di un tono che caratterizza il finale e la coda. Qui le "strofe" con cui si è familiarizzato fino a pochi secondi prima si ripetono, alzate di un tono. Si tratta un espediente abusato spesso in maniera triviale nella musica pop, tanto da essergli valso una sorta di etichetta canzonatoria, "Truck Driver's Gear Shift", ma che in questo caso, grazie alla preparazione precedente, tanto istintiva quanto sofisticata, assume un valore catartico, liberatorio, enfatizzato dagli acuti celestiali di Battisti.
Difficile pensare che un simile classico, conosciuto e cantato da decenni nel nostro paese, possa richiedere così tante parole per essere descritto esaustivamente; il miglior Battisti riusciva come forse nessun altro a unire una complessità anche notevole a una grande immediatezza melodica. La breve ripresa per chitarra acustica e voce posta in fondo alla scaletta, verosimile estratto di una versione demo, dimostra poi l'importanza cruciale di circondarsi del giusto gruppo di lavoro quando occorre finalizzare un'idea artistica.
La lezione di "Ancora tu", connubio tra l'influenza funk statunitense, all'epoca inedita in Italia, e gusto melodico mediterraneo/cantautoriale, più accessibile al pubblico tricolore, viene riproposta nella quasi totalità dell'album, con un paio di eccezioni.
"Un uomo che ti ama" ha un'introduzione drammatica, giocata tra l'accordo di Si seconda sospesa e Si minore. Dopo alcuni secondi la base si stabilizza e tornano gli stessi ingredienti già conosciuti nella traccia di apertura: batteria e basso sincopati, chitarra elettrica in palm muting, svolazzi di Wurlitzer. Dal punto di vista strettamente armonico si respira tuttavia un'atmosfera più "bianca", in qualche modo memore della fase più pop progressiva di Battisti. Si segnala in particolare un assolo di chitarra elettrica appena crunchy ad opera di un ispirato Graziani.
"No dottore" è un altro peculiare ibrido tra funk e progressive pop in cui è possibile apprezzare le capacità interpretative di un Battisti che nel 1976 sta raggiungendo piene maturità e consapevolezza sotto l'aspetto vocale. In "No dottore" il cantautore di Poggio Bustone dà sfoggio della sua versatilità: le frasi iniziali, più recitate che cantate, sono drammatiche e teatrali. La cosa non è di per sé una novità nella carriera del musicista fino a quel momento, anzi: la ricerca di una forte tensione emotiva ha caratterizzato molti dei suoi grandi successi tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta. Tuttavia, si assiste a un'ulteriore evoluzione e la ricerca di asciuttezza che già contraddistingueva le sue canzoni anche quando doveva farsi largo tra gli "urlatori" degli anni Sessanta trova pieno compimento. Le implorazioni al dottore del testo lavorano infatti di sottrazione, con un recitato che sfocia in un'emissione flebile, in falsetto, a sfruttare tutte le sfumature della sua voce. In questo senso, la passione di Battisti per il soul, il rhythm'n'blues, il funk lo portano a non inseguire le ugole di cantanti quali il suo mentore giovanile Wilson Pickett o James Brown, più potenti della sua, ma a trovare una sua strada, scoprendo un'espressività unica per mezzo della sua voce sottile. Nei climax del brano, ad esempio, lo si può sentire cantare contemporaneamente (ovviamente con l'ausilio di sovraincisioni) la voce solista screziata, i cori in falsetto e i "per favore" di risposta con registro grave.
Anche su "Io ti venderei" si può apprezzare un Battisti vocalmente in stato di grazia: la sua capacità di passare velocemente e con naturalezza da un registro naturale al falsetto "di testa" nobilita anche quello che sarebbe altrimenti un brano minore di una scaletta come quella di "La batteria...".
Per quanto già significativi di per sé, quelli appena analizzati sono soltanto un paio di esempi, che certamente non possono esaurire tutto ciò che si può dire sulle capacità vocali del cantante reatino, con ogni probabilità la voce più peculiare e caratteristica di tutto il cantautorato italiano.
"Dove arriva quel cespuglio" musicalmente sembra quasi fare le prove generali dei "dischi bianchi", sebbene con un risultato globalmente più accessibile. La canzone utilizza infatti progressioni di accordi piuttosto standard, ma le modifica leggermente a ogni ripetizione e quando non viene cambiata la progressione degli accordi, cambiano la metrica vocale o le entrate della voce, facendo venir meno i punti di riferimento all'ascoltatore. Simili espedienti diventeranno la regola nel periodo panelliano.
L'arrangiamento è in ogni caso il vero fiore all'occhiello del brano: l'ormai immancabile ritmo funk di batteria, basso e (doppia) chitarra, lento ma inesorabile, fa da tappeto a una pletora di tastiere, soliste o d'atmosfera, a un pianoforte drammatico, suonato dallo stesso Battisti, e ai magniloquenti synth strings che enfatizzano le pause strumentali con un tono orchestrale, quasi da baroque pop. Le variazioni nelle frasi di chitarra (si nota in particolare l'ingresso del pedale wah-wah intorno al secondo minuto) e pianoforte creano ulteriore movimento a una canzone che mescola America e decadenza da cabaret mitteleuropeo in una formula che sembra andare nella stessa direzione del Bowie divenuto Duca Bianco. "Station To Station" e "La batteria..." sono tuttavia quasi contemporanei (vennero entrambi registrati nel 1975 e uscirono a poche settimane di distanza) per cui sarebbe scorretto pensare a un'influenza diretta di Bowie su Battisti: si tratta piuttosto di una convergenza "spirituale" tra due artisti di assoluta rilevanza e indipendenza creativa.
Per donare un po' di varietà a un album altrimenti monolitico, in scaletta si trovano un paio di canzoni piuttosto distanti dagli umori funk e disco che per il resto dominano la scena. La prima di queste, "La compagnia", è una cover, pezzo scritto da Mogol e Carlo Donida Labati per Marisa Sannia, cantante piuttosto in voga negli anni Sessanta. Rispetto all'originale, il tempo passa da quattro quarti a sei ottavi, la durata viene decisamente dilatata e l'arrangiamento yéyé lascia spazio a una sorta di doo-woop screziato di glam rock.
La seconda, "Respirando", mostra profonde differenze con le altre tracce già a partire dal metodo di lavorazione. Qui infatti Lucio Battisti non registra soltanto tutte le voci, come del resto è sempre stata sua abitudine, ma suona anche tutti gli strumenti da solo. L'umore musicale è tra il folk e il mediterraneo, a partire dal gran dispiegamento di strumenti a corda utilizzati, quali chitarre acustiche, chitarre resofoniche, mandolini. Il cantautore si cimenta anche al basso e alle percussioni: la sua natura di polistrumentista era già emersa nel celebre spezzone del programma Rai "Tutti insieme", del 1971, in cui si prodigava senza sfigurare in un'improvvisazione di sole batterie con maestri dello strumento quali Franz Di Cioccio, Sergio Poggi e Tony Cicco della Formula 3 e Sergio Panno dei Dik Dik. Ancora una volta, si apprezza l'ingegno in fase di arrangiamento, anche questo totalmente ad appannaggio di Battisti, evidente nella varietà di frasi melodiche, brevi interventi, pause strategiche che si possono ascoltare andare e venire sui due canali stereo. La rigorosa fedeltà sonora all'immaginario mediterraneo sembra quasi preludere agli esperimenti che Mauro Pagani porterà avanti tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta.
"Il Veliero", piazzata in coda alla scaletta, spinge ancora più forte sull'acceleratore della contemporaneità. La batteria di Walter Calloni questa volta è un metronomo: cassa in quattro quarti, rullante sui battiti pari, charleston sul levare, il pattern ritmico è essenziale, ripetitivo. Più che disco, ci si trova in territori da musica elettronica; non a caso, si prende spesso a riferimento questa canzone come una sorta di punto di partenza per la italodisco degli anni a venire. Da un lato, si possono capire le ragioni e alcune di esse risultano innegabili, come ad esempio il lungo ostinato iniziale di basso e batteria, quasi un loop adatto per le piste da ballo. Tuttavia, una lettura del brano così netta e circoscritta rischia di risultare un po' troppo semplicistica e tralasciare alcune peculiarità più uniche che rare. In grande spolvero è la chitarra di Graziani: apparentemente relegato al ruolo di comprimario, il musicista abruzzese suona nuovamente "diviso" sui canali stereo di due temi di chitarra ritmica diversi. Ad essere più precisi, Graziani arriva a suonare due temi diversi; nei primi venti secondi infatti entrambe le sue chitarre suonano lo stesso riff su due note, doppiate alla stessa altezza. Quindi la "sinistra" smette di suonare, mentre la destra ripete lo stesso riff un'ottava più in giù. Passano alcuni secondi e la chitarra a sinistra s'inventa un altro tema, incastrato in un modo diverso rispetto al precedente. Sembra tuttavia che l'idea sia appena nata nel momento in cui la si ascolta, in quanto il chitarrista non attacca perfettamente a tempo e suona un paio di slide discendenti molto ravvicinati, tipico espediente utilizzato dai chitarristi quando non hanno un'idea precisa su come terminare una frase. Dopo pochi secondi anche la chitarra a destra torna a suonare il suo riff sull'ottava in cui aveva iniziato.
In sostanza, tutti questi piccoli dettagli restituiscono un senso di spontaneità da jam session, un umore ben distante dalla ripetitività precisa e marziale della musica elettronica. Il suono di batteria, basso e chitarra sembra quasi anticipare certo post-punk dal sapore disco (Talking Heads, Gang of Four), ma tastiere e pianoforte trattato trasportano l'ascoltatore in una colonna sonora da thriller poliziesco italiano anni Settanta. L'unione di disco, funk e melodie da colonna sonora di film di genere sono oggi venerati dal pubblico alternativo italiano, che ha tra le sue figure di spicco artisti come Nu Genea o Bassolino: quasi cinquant'anni prima, il riccioluto cantautore di Poggio Bustone aveva concepito lo stesso immaginario, con più rigore e ferreo minimalismo.
Non è finita qui: "Il Veliero", come ben noto, non è un brano strumentale su un solo accordo, ma una canzone vera e propria, con grande libertà compositiva, tanto per struttura, quanto per scansione degli accordi. Se si esclude la lunga intro strumentale, la sezione cantata è infatti composta da due grossi cicli di progressioni di accordi che si ripetono uguali... solo all'apparenza. Il primo inizia a 2'23'' con gli accordi di Mi minore e Sol maggiore, suddivisi per blocchi di sei battute o multipli di sei: dodici battute di Mi minore, sei di Sol maggiore, di nuovo sei di Mi minore. Si torna dunque al Sol maggiore, ma questa volta si apre una serie di accordi che procedono a blocchi di otto o quattro battute tra Sol maggiore (in un'occasione arricchito con la settima minore) e Do maggiore, secondo una scansione più canonica nella musica pop. La sezione termina con quattro battute di un accordo di dominante di Si, espediente molto utilizzato e naturalmente identificabile all'ascolto per accumulare la tensione da risolversi tornando al primo grado (appunto il Mi minore).
Già così ci si trova di fronte a una marcia piuttosto irregolare, tuttavia la seconda ripetizione cambia ulteriormente le carte in tavola. Il Mi minore iniziale infatti non si ripete più per dodici battute, ma per undici, cosa assai insolita per una canzone pop, per poi lasciare spazio a una serie di ripetizioni sempre più serrate di Sol maggiore e Do maggiore: prima otto battute per accordo, poi quattro, poi due e quando ci si aspetta di ascoltare di nuovo l'accumulo di tensione sul Si maggiore settima, la canzone da Sol maggiore torna in Mi minore, con un imprevisto così sottile che potrebbe passare inosservato, quasi non ci fosse nessun particolare stratagemma.
La verità è che quest'ultima frase potrebbe essere utilizzata per descrivere tutto il brano; verrebbe da pensare che si tratti di un'unica grande improvvisazione istintiva, tanto irregolare è l'andatura. Conoscendo il proverbiale perfezionismo di Battisti, è tuttavia impossibile non pensare che si tratti piuttosto del frutto di un ragionato calcolo, effettuato se non nella fase suonata con la band, quantomeno in sede produttiva e di "montaggio". Il testo restituisce alcuni frangenti del miglior Mogol, quello più immaginifico ed escapista:
Il veliero va"La batteria, il contrabbasso, eccetera" risulterà l'album più venduto in Italia nel 1976, con sedici settimane al numero 1 nella classifica di "Tv, Sorrisi e Canzoni", trainato anche dal successo del 45 giri di "Ancora tu/Dove arriva quel cespuglio" (tredici settimane al numero 1), mostrando ancora una volta la capacità del cantante reatino di saper far breccia nell'immaginario collettivo, anche in epoca di lotte e militanze rivoluzionarie come fu il 1976 del Parco Lambro e del Palalido.
E mi porta via
Spumeggiando va
È giusto e sia
Prua al mare va non torna più
Lo smarrimento vince sempre lui
Mamma paura come sempre non lasci mai
I figli tuoi
16/02/2025