They left me here on my own
In a nightmare and I just
Can't forgive any more
So I smile and I turn away
Il biennio 1992/1993 rappresenta un periodo d’oro per i Lush, che a seguito dell’inaspettato successo ottenuto con l’esordio in studio “Spooky” (escludendo la variegata compilation di debutto “Gala”, pubblicata nel 1990), si ritrovano a dover affrontare un convulso vortice che li vede protagonisti di tournée senza sosta da una parte e in studio di registrazione al lavoro fin da subito per il successivo capitolo, al fine di tenere fede agli accordi presi con la 4AD, dall’altra. Ma non è ovviamente tutto oro quello che luccica, e anche se al tempo non si parlava ancora di quello che oggi ci è tristemente ben noto come burnout, i problemi sono dietro l’angolo, insieme ad altrettanti malumori sorti tra i componenti del quartetto.
“Split” non è il genere di disco che tutti si aspettano, è un’opera cupa di difficilissima gestazione, dati i dissidi interni al gruppo, e i cui testi risultano di grande impatto emotivo. Registrato nell'autunno del 1993, il sophomore pone al centro delle liriche tematiche molto sentite e personali per la frontwoman Miki Berenyi, come quella dell’abbandono, oltre a morte e abusi in famiglia (da lei subiti in tenera età dalla nonna paterna).
Notando fin da subito un’atmosfera tesa all’interno della band, Bob Mould declina l'onere di occuparsi della produzione dell'album, lasciando il posto vacante. In veste di producer appare quindi Mike Hedges, collaboratore di nomi di livello come Cure, Bauhaus e Siouxsie And The Banshees. Tra gli inciampi e le difficoltà incontrate in corso d'opera figura un primo mix finale piatto e poco consistente, ma ancora una volta la situazione viene salvata in extremis, grazie a una seconda fase di remixaggio per (santissima) mano di Alan Moulder (My Bloody Valentine, Ride, Jesus And Mary Chain).
Ad aprire il disco sono le delicate tessiture di piano e archi dell’indolente ballad “Light From A Dead Star”, nomen omen, se si pensa al lento declino intrapreso dal gruppo, che culminerà con la morte del batterista Chris Acland nel 1996, e i cui elementi dark rimandano immediatamente a Siouxsie And The Banshees, tra le influenze cardine del progetto; ad essa fa seguito “Kiss Chase”, i cui versi, accompagnati da sonorità apparentemente colorate e dai cori armonici di Emma Anderson e Berenyi, celano gli abusi subiti da quest’ultima.
Tra gli argomenti portanti, come un (primo) amaro presagio di quel che sarà, figura anche la depressione, innestata tra i vezzi folk della chiusura malinconica “When I Die” e nello spiazzante intermezzo strumentale di “Desire Lines”. Altra ottima traccia è l'orecchiabile e sferzante “Hypocrite”, brillante apripista di quella che sarà la breve fase (brit)pop del successivo episodio “Lovelife” (1996), dominata da ritmiche veloci ed efficaci riff di chitarra.
La band viaggia tra diversi spettri sonori con gli echi noise-pop di “The Invisible Man” e “Blackout”, l’indie-rock/pop venato di psichedelia di “Lovelife”, la concentrica “Undertow” e le sonorità sognanti della lunga “Never-Never” e di “Lit Up”, fino a “Starlust”, che pone nuovamente l’accento sui riverberi delle chitarre in zona shoegaze.
Travolto in pieno dall'ondata britpop in ascesa, e per questo accolto tiepidamente dalla critica del tempo e dal pubblico, con conseguenti cancellazioni di alcune date dei successivi tour, salvo poi essere fortunatamente rivalutato in seguito, “Split” segna una delle maggiori vette a livello lirico nella carriera dei Lush, grazie ai suoi testi introspettivi amalgamati a un sound che abbraccia un ampio ventaglio di sfumature, dal noise-pop dinamico fino a velati accenni ethereal-wave, modello che oggi, con il nuovo (l’ennesimo) ritorno di shoegaze e dream-pop, spesso ibridati ad altri generi musicali, suona più attuale che mai.
18/05/2025