Quando nel 1998 "Clandestino" di Manu Chao atterrò sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo e i suoi singoli venivano proposti con insistenza dall'allora influente heavy rotation di Mtv e degli altri canali musicali del globo, in un panorama musicale dominato dalla musica anglofona (fosse essa rap, r&b o rock) il suo nome suonò quasi come una sorpresa. Eppure, quello che di lì a poco sarebbe diventato il vate musicale di una certa cultura no global e sarebbe comparso in numerose classifiche di vendita era tutt'altro che un nome nuovo.
A partire dal 1987 Manu Chao, al secolo Jose Manuel Arturo Chao Ortega, con i Mano Negra, formazione cruciale della scena alternativa francese degli anni 90 condivisa con fratelli, cugini e altri musicisti del panorama parigino, era stato il capostipite, perlomeno a livello europeo, di quello che oggi chiamiamo latin alternative. Se in Sudamerica il genere vedeva i suoi fari negli argentini Los Fabulosos Cadillacs e nei messicani Maldita Vecindad y Los Hijos Del Quinto Patio, il riferimento principale europeo del latin alternative erano infatti proprio i Mano Negra. La loro miscela incendiaria di rock, canzone d'autore francese, ritmi africani, flamenco, ska, salsa, reggae e blue viene ancora oggi chiamata patchanka, in onore proprio del loro primo disco ("Patchanka" del 1988). Non si tratta peraltro del loro lavoro più significativo, che sarebbe arrivato soltanto l'anno dopo con il titolo di "Puta's Fever".
Dopo altri due dischi, continui cambi di formazione e finanche di denominazione in Radio Bemba (di fatto un'esperienza prodromica al Manu Chao solista), intorno al 1997 i Mano Negra si sciolsero e il loro leader si ritirò temporaneamente a vita privata per darsi a peregrinazioni tra America Latina e Africa.
Per capire meglio un disco entrato letteralmente nell'immaginario collettivo come "Clandestino", le scelte di Manu Chao e le ideologie a cui sarebbe stato legato per sempre è fondamentale fare un ulteriore, grande salto indietro. A tempi ben anteriori alle invenzioni rivoluzionarie e insurrezionali dei Mano Negra, ai tempi dunque della sua infanzia.
I genitori di Manu Chao, il giornalista galiziano Ramon Chao e la ricercatrice basca del CNRS Felisa Ortega, lasciarono la Spagna per trasferirsi a Parigi a causa della loro posizione in forte conflitto con la dittatura di Franco. Nato nel 1961, il musicista crebbe dunque nel sobborgo di Boulogne-Billancourt, in una casa che somigliava a una comune, nella quale i genitori ospitavano numerosi artisti esuli e dissidenti delle varie dittature sudamericane.
Il giovane Manu Chao si ritrovò dunque circondato da arte, musica e senso di ribellione. Invece delle favole, a popolare la sua fantasia erano storie di oppressione e lotta, di sofferenza, ma sempre iniettate di un inarrestabile senso di rivalsa e speranza. Tutte caratteristiche lampanti all'ascolto anche di un solo verso o di un solo accordo di "Clandestino". Grazie alla sua esperienza familiare e ai suoi viaggi, Chao avrebbe appreso, oltre al francese, all'inglese, allo spagnolo e al galiziano, anche l'arabo, il portoghese, l'italiano e il wolof (la lingua dell'omonima popolazione del Senegal). Tutti idiomi che mescola sovente, anche in una sola canzone, dimostrandosi un vero e proprio menestrello poliglotta, alfiere di un metodo senza confini linguistici e di genere.
Solo voy con mi pena, sola va mi condena
Correr es mi destino para burlar la ley
Perdido en el corazón de la grande Babylon
Me dicen "el clandestino" por no llevar papel
Al tramonto del Novecento, in piena Pre-Millennium Tension, per dirla con
Tricky, Manu Chao diventa il paladino
barricadero di una generazione antagonista, che rifiuta le leggi consumistiche della globalizzazione e le avide logiche di sfruttamento applicata dalle multinazionali sulla pelle dei popoli del Terzo Mondo. Paradossalmente, proprio colui che incarna la multiculturalità e il cosmopolitismo, con il suo approccio poliglotta e apolide, finisce col divenire il simbolo di quanti vogliono difendere i confini e le radici identitarie dei popoli e delle loro terre. Nulla che abbia minimamente a che fare con il sovranismo contemporaneo, naturalmente, ma all'epoca il fronte politico era spostato su altre coordinate e il nemico non era Trump, bensì il Fondo monetario internazionale e in seconda battuta la stessa Unione europea, o quantomeno la Bce e le istituzioni finanziarie alle quali si mostrava supinamente assoggettata.
Cantando la clandestinità come stato dell'anima (e come condizione di perenne straniamento degli "invisibili", di quanti vivono fuori dalle logiche sociali ed economiche dell'Occidente turbo-capitalista) Manu Chao si faceva cantore di una diversa concezione del mondo globale, inteso come luogo di accoglienza e inclusione, in cui le dinamiche commerciali sono
eque e solidali, in difesa dei territori e dei diritti dei lavoratori. La diversità culturale come antidoto al conformismo globale e alle sue logiche di asservimento.
Un'utopia, insomma, non molto distante da quella dell'età dell'Acquario e come tale destinata a spegnersi rapidamente. Per un attimo, però, quelle delicate fragranze melodiche e quei versi-slogan diedero davvero il senso di una rivoluzione col sorriso, fatta di resistenza e speranza. Il suo lessico è la succitata
patchanka, ibrido meticcio caratterizzato da una commistione di colori, suoni, stili, lingue, musiche e tradizioni diverse - che vede un precedente nei
Clash di "Sandinista".
Altro paradosso è che l'album - clandestino di nome e di fatto - uscì praticamente senza promozione, come una sorta di silenzioso canto del cigno del cantante franco-spagnolo, diventando tuttavia un bestseller da 5 milioni di copie e il trampolino di lancio per una (lunga) carriera solista, proseguita fino ad oggi, anche se mai più a questi livelli.
Il sipario si apre su una metropoli caotica, anonima e indistinta: potrebbe essere Parigi come New York o Città del Messico. È "la grande Babylon" dove il "Clandestino" della
title track si è perduto ("perdido en el corazón") e vive da invisibile, rassegnato al suo destino solitario e fuorilegge senza alcuna possibilità di riscatto ("Solo voy con mi pena, sola va mi condena/ Correr es mi destino para burlar la ley"). Su una chitarra acustica essenziale, sospinta da un ritmo reggaeggiante, Manu Chao sussurra in tono sommesso, impersonando la voce di chi vive nell'ombra. Uno squarcio di immigrazione illegale e brutalmente negata. Versi come "Soy una raya en el mar" ("Sono una riga nel mare") o "Clandestino por no llevar papel" ("Clandestino per non avere documenti") condensano il senso di sradicamento e l'ansia dell'appartenenza negata. La reiterazione melodica diventa ipnotica, simboleggiando una condizione senza fine. "Clandestino" è una ballata dolceamara, tanto struggente nei suoni quanto inflessibile nel testo, con quell'elenco di nazionalità extracomunitarie relegate all'emarginazione - africano, algerino, nigeriano, peruviano, boliviano - e quella citazione della band-madre ("Mano negra ilegal").
Gli fa seguito senza soluzione di continuità l'altro gioiello "Desaparecido", stessa andatura reggae, frammista a rumba e influenze caraibiche, a puntellare stavolta un inno commovente a tutti i "dissidenti", fatti sparire in silenzio dalle dittature di ogni angolo del globo: senza rumore, senza processi, senza condanne e senza avvocati. L'arrangiamento volutamente scarno, quasi
lo-fi, sottolinea l'urgenza del messaggio: "Yo llevo en el cuerpo un dolor/ Que no me deja respirar/ Llevo en el cuerpo una condena/ Que siempre me echa a caminar". L'erranza, dunque, come unica condizione possibile per chi vive con un bersaglio sulla fronte, in un raffronto ideale tra la condizione dei migranti irregolari e quella delle vittime dei golpe sudamericani.
Sono brani che al rock e ai ritmi serrati dei Mano Negra preferiscono i languori di un pop elettroacustico malinconico e morbidamente ipnotico (non distante da quello dei coevi connazionali
Noir Desir) e le sfumature di un ethno-folk dolente e
groovy al tempo stesso, che tra chitarrine in levare, ottoni distanti e tenui filigrane elettroniche, resta sospeso in una dimensione irreale di quella
Malegria (titolo anche di un'altra traccia in scaletta), che, nello spirito di certa musica brasiliana, sposa gioia e tristezza, luce e ombra, in una dialettica permanente. Con quei rumori di strada e quei frammenti radiofonici che attraversano le canzoni, come a voler tenere sempre dritte le antenne sulla realtà contemporanea.
A richiamare l'esperienza dei Mano Negra è anche "Bongo Bong", rilettura vicina al rap di quella "King Of Bongo" che dava il titolo al terzo album della band francese. Se resta il tema di fondo - la fiera rivendicazione dell'autonomia artistica di un suonatore di bongo, popolare nella sua comunità ma ignorato nella grande metropoli - i giri si abbassano dal tribalismo rock della versione originale a una cantilena minimale scandita da un
bip, che fluisce naturalmente nella successiva "Je ne t'aime plus", interpretata da Manu Chao in francese, con tono malinconico e disilluso, per dar voce alla fine di un amore. Il titolo ironico richiama la celebre canzone erotica di
Serge Gainsbourg, ma qui l'amore perduto diventa un simbolo dello smarrimento d'identità e del disagio personale. Deliziose le cadenze, vagamente bossa nova, con la chitarra a sorreggere un arrangiamento languido e una melodia splendida, che si snoda dolceamara, infondendo un senso di vulnerabilità che rende il brano emotivamente immediato (non a caso sarà oggetto di cover ad opera di
Robbie Williams nonché dei tedeschi Max Raabe & The Palast Orchestra).
Il francese la fa da protagonista anche in "La viè a 2". Chao lo spoglia però di sensualità e consonanti aspirate per calarlo in un contesto suburbano, dove lo declama con il fare stradaiolo di un mercante.
Todo es mentira en este mundo
Todo es mentira, la verdad
"Todo es mentira", yo me digo
Todo es mentira, ¿por qué será?
I sedici brani che compongono "Clandestino" più che a una scaletta assomigliano a un viaggio, a un errare ciclico e organico, dove le frasi chiave, ma anche i ritmi e le melodie vanno e vengono arricchendosi di nuove sfumature, diventando parte di un'esperienza che mescola alla musica registrazioni telefoniche, report giornalistici e
field recording. Se "La despedida", con i suoi ricami di chitarra e l'elettronica che sfila come una cometa, richiama le atmosfere delle due tracce che aprono il disco, vi è (ad esempio) una stretta connessione anche tra "Mentira" e "Luna y Sol". Approfittando di due liriche interscambiabili e complementari, le due canzoni arringano contro le bugie raccontate dai governi dei paesi capitalisti e di quelli in via di sviluppo per convincere le masse della bontà delle proprie scelte. La prima punta però al cuore con una melodia di chitarra pizzicata splendida e dolente, mentre la seconda è più aizzante, adornata com'è di ottoni da parata e agitata da una ritmica dritta e arzilla. A rendere il combo un manifesto politico vi è poi un azzeccatissimo
sample giornalistico sul protocollo di Kyoto, dove viene sottolineato l'atteggiamento negazionista di alcuni leader politici rispetto al surriscaldamento globale.
Il viaggio e gli esperimenti continuano con "Welcome To Tijuana", dove la città messicana, inebriata da "tequila, sexo e marijuana", diventa il teatro più psichedelico della scaletta. Chitarrina incespicante, trombe squillanti, lampi elettronici, basso dub e
overlapping vocali vengono impastati da Chao e band in un pezzo sì canticchiabile e ammiccante, ma dalla forte carica psicotropa.
La passione di Manu per le droghe, in particolare la marijuana, pervade poi "Minha galera", una sorta di dolcissima e traballante ninna nanna in portoghese, dove il cantautore gioca con le parole e la loro pronuncia per potersi riferire tanto a una ragazza quanto alla pianta di canapa portatrice di THC.
El viento viene
El viento se va
Por la frontera
El viento viene
El viento se va
È il
refrain di "El viento", il brano posto a chiusura del disco e delle peregrinazioni del clandestino. Quando musica e parole cessano, rimane soltanto il
field recording incessante del vento: è un trionfo immaginifico, dove la natura, attraverso questo elemento, ignora e si fa sberleffo dei confini imposti dall'uomo ai suoi simili, dall'uomo a sé stesso.
È quasi pleonastico scriverlo, ma oltre a rappresentare un capolavoro folk senza tempo, con le sue citazioni, il suo senso d'urgenza e di inguaribile speranza, "Clandestino" era un disco profondamente attuale tanto quando faceva la sua comparsa quasi trenta anni fa quanto lo è oggi.
01/12/2024