Mizrahi: una cultura in flusso perenne
"Ci sono ebrei in Arabia e arabi in Israele": questo il messaggio implicito nel libretto del compact disc dell'edizione europea di "Yemenite Songs", ristampato nel 1985 con note a cura di Ben Mendelson e traduzioni di Mimi Lilienthal. All'interno, una mappa geografica mostra l'area interessata, con lo stato di Israele esteso dal confine nord col Libano fino alla punta sud nel Golfo di Aqaba, e l'area della Palestina divisa in due: a est la Cisgiordania, a ovest la striscia di Gaza, un'infelice lingua di terra spalmata contro l'estrema costa orientale del Mediterraneo. Quei confini, peraltro già alquanto labili ai tempi, hanno continuato a muoversi lungo i decenni di storia che ci separano dall'uscita di questo album, e con essi si sono mosse a catena le vicissitudini di migliaia di vite rimaste intrappolate nel mezzo.
Controversa o meno dal punto di vista geopolitico, come purtroppo dobbiamo tutt'oggi constatare, la creazione dello stato di Israele, avvenuta nel 1948, è stata però anche il frutto di un lunghissimo processo storico iniziato secoli addietro, con le prime dispersioni delle popolazioni di religione ebraica, partite dall'area di Gerusalemme alla volta del resto del pianeta. Già qui, i termini linguistici e le intenzioni alla base dei fatti si confodono, dal momento che ci sono svariate interpretazioni etimologiche. Oggi almeno, in Occidente, si tende a usare la parola "diaspora" per indicare una migrazione principalmente volontaria e intrinsecamente geografica, che dà l'idea di popolazioni ancora legate alla propria terra d'origine, forse partite addirittura con spirito colonizzatore per espandere il proprio stile di vita altrove. Ma la versione ebraica della stessa parola è "galut", e intende piuttosto un perenne stato di flusso e movimento, fisicamente sradicato dalla terra d'origine ed emotivamente dissociato nell'anima, come fosse condannato a non trovare mai il proprio posto nel mondo. Quest'ultimo significato è certo più pesante e doloroso da portarsi addosso, ma sembra intrinsecamente causato anche dalla spesso cattiva ricezione che le popolazioni ebraiche hanno riscontrato nei luoghi dove hanno provato a stabilirsi, e le continue persecuzioni alle quali sono state soggette lungo il corso dei secoli.
Tra queste frange di espatriati, ci sono i Mizrahi, ovvero gli "orientali", coloro che, almeno sin dal 110 b.C. secondo le prime testimonianze, si sono spinti fino al sud della penisola arabica, in quella punta di terra oggi chiamata Yemen. Se è vero che, fino alla creazione dello stato di Israele, non era ancora esistita una nazione di religione ebraica secondo i moderni parametri occidentali, in Yemen gli ebrei erano comunque riusciti a fondare un regno, mantenendo uno stile di vita insulare basato sulla conservazione di antiche tradizioni secolari, anche al netto delle ovvie interazioni con le popolazioni locali. Le opinioni tra gli studiosi in materia non sono unanimi, ma diversi considerano gli ebrei yemeniti come la progenie culturalmente più incontaminata, in quanto rimasta isolata dalle altre frange del credo ebraico, che spesso si sono invece occidentalizzate.
Ma i Mizrahi sono anche i più poveri; il loro isolamento, del resto, è tipico di un po’ tutte le culture che han trovato casa in Yemen, dai nomadi musulmani delle montagne nel nord, ai pescatori di origini somale ed etiopi sparsi lungo la costa del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano. Infine, l'arrivo degli inglesi a partire dal 1839, che per un oltre un secolo ha destabilizzato ulteriormente la regione, dividendola in due sezioni per poter meglio controllare l'area costiera in vista della costruzione del canale di Suez. Pur molto approssimative, sono queste le dinamiche dello Yemen e di chi ci ha vissuto: culla d'Arabia dalla cultura millenaria, contaminata sin dalle origini con l'ebraico e l'aramaico, un crogiuolo fragile e complesso tendente alla guerriglia perenne, nel quale gli stessi Mizrahi non hanno avuto vita facile, perseguitati per secoli sia degli arabi che dai cristiani. Una convivenza difficile, che tuttavia non ha mancato di creare inediti rivoli di scambio culturale e di basi comuni, purtroppo spesso rimasti soffocati dalla violenza.
Poi, nella prima metà del Novecento, ecco il nazismo in Europa, la più plateale e minuziosamente documentata shoah ai danni degli ebrei alla quale abbiamo accesso, al punto da spingere in tanti a richiedere la creazione di uno stato nel quale potersi rifugiare una volta per tutte: Israele. Ovviamente, l'intero quadro alla base della nascita della nazione, che a onor di cronaca comprende anche strategie militari, interessi economici, manovre politiche e contrasti sociali, è ben più complesso di quanto non si possa riassumere nella recensione di un album musicale. Tuttavia, questa storia inizia proprio qui, ovvero quando molti Mizrahi, ancora in Yemen sul finire degli anni Quaranta, prendono parte all'operazione "tappeto magico", una serie di migrazioni organizzate per ricongiungerli al resto della "galut" all'ombra del Muro del Pianto. Tra questi nuovi migranti ci sono Yefet e Shoshana Haza, coniugi in fuga dopo essere stati scacciati nel mezzo del deserto dalla loro abitazione nel villaggio di Haz, nella regione attorno alla capitale yemenita, San’a. La coppia arriva nel 1949 con i primi figli piccoli già a carico; l'ultimogenita di ben nove pargoli, Bat-Sheva Ofra Haza, nasce nel 1957, assimilata assieme a tutta la famiglia nei ranghi della prima ondata dei nuovi cittadini d'Israele.
A rimetterci è il popolo palestinese, che abita nella zona da secoli e adesso si trova espropriato dalle proprie terre e con una nazione divisa in due. A Gaza, in particolare, le condizioni di vita per la popolazione peggioreranno progressivamente lungo il corso degli anni, portando la regione in uno stato di confusione e corruzione bellica dal quale emergeranno, infine, le frange estremiste di Hamas tuttora impegnate nella guerriglia contro i coloni ebrei. Inizia così una nuova parte di questo doloroso conflitto, dove i protagonisti si sostituiscono di fronte al grilletto ma la sostanza non cambia: quello che un tempo accadeva da una parte, adesso viene travasato dall'altra.
Diwan: canzoni in bilico tra tradizione e innovazione
Ci vuole pelo sullo stomaco per affrontare affinità e divergenze tra popoli in un contesto come quello appena descritto: due culture messe l'una contro l'altra in una nuova guerra d'interessi mascherata da vecchio conflitto religioso. Ma la realizzazione di "Yemenite Songs" parte proprio da tali presupposti, pur evitando esplicite prese di posizione; il suo scopo è riportare in luce l'antica cultura Mizrahi in dialetto yemenita, aggiornando i preziosi reperti di un passato intriso di punti di contatto tra cultura ebraica, cultura musulmana e l'influenza di quei popoli africani che avevano attraversato il Golfo di Aden. Non si tratta quindi di un disco politico, francamente non ce n'è neanche bisogno: la cornice nella quale s'inserisce è violenta abbastanza da destare comunque liti a iosa. Il che è un peccato, dacché, tra l'innata bellezza dei brani presentati, una produzione pertinente, che mescola strumenti tradizionali a sintetizzatori e drum machine, e le limpide interpretazioni di una delle più suggestive voci del Medio Oriente, "Yemenite Songs" respira un calore umano semplicemente universale, nel quale moderno e secolare, divino e terreno, creano linfa poetica immediatamente percepibile a pelle, anche per gli ascoltatori estranei a tutte le dinamiche di cui sopra.
La genesi del lavoro ha prima di tutto radici personali; la piccola Ofra cresce ascoltando la voce della madre, che di tanto in tanto si esibisce ai Bar Mitzvah di quartiere cantando le canzoni tradizionali Mizrahi, ruminando insomma quel passato per lei recente che non è certo stato facile, ma che rimane pregno di ricordi, usanze e tradizioni che non vuol assolutamente perdere, nonostante un nuovo passaporto in una nuova nazione. C'è anche da dire che in Israele i Mizrahi sono considerati l'ultima ruota del carro, gli abitanti più poveri che vivono nelle zone popolari alla periferia di Tel Aviv, per loro quindi mantenere le proprie radici è anche questione di principio. Il successo di Ofra come popstar non solo locale, ma anche internazionale - incluso un secondo posto all'Eurovision nel 1983 con "Hi" - è ampio motivo d'orgoglio per l'intera nazione. Ma è con "Yemenite Songs", nono album in carriera, escludendo alcune collaborazioni teatrali, che la cantante diventa vera e propria artista, nonché simbolo di rivincita per tutti i Mizrahi. Agghindata di monili d'oro e attorniata da flauti e percussioni, l'interprete porta avanti un progetto raramente sentito prima di allora, che le fa guadagnare il rispetto anche nel mondo arabo e in Occidente, proprio grazie all'ardita fusione stilistica presentata.
In arabo, i Diwan sono raccolte di poemi antichi, ideati per essere ballati e cantati durante le cerimonie più importanti dell'anno. L'espansione dei Mori, lungo il corso dei secoli, ha fatto sì che cicli di Diwan siano presenti in grossa parte della fascia d'influenza anche non strettamente musulmana, dal Marocco alla Persia tanto quanto in Sicilia e nell'Andalusia. In Yemen, i Diwan appartenenti alla cultura Mizrahi sono considerati particolarmente interessanti; il rabbino Shalom Shabazi, vissuto tra il 1618 e il 1670, è uno dei poeti più rinomati, prescelto da Ofra come autore di sette degli otto brani qui presenti. Tra storie d'amore, ritratti comuni di vita nel villaggio e pressanti canti per lamentare situazioni di oppressione, i Diwan di Shabazi toccano punti nevralgici della comunità Mizrahi, facendosi preziosi antidoti attorno ai quali la popolazione si aggrega per farsi forza.
La struttura tipica del Diwan segue grosso modo un canovaccio di stampo medievale: nashid, l'introduzione a cappella, shira, la parte centrale cantata e ballata con tutto l'accompagnamento strumentale, e hallel, il finale nel quale cantanti e ballerini si congedano dal pubblico, talvolta invitandolo a unirsi in coro. Anche se non sappiamo esattamente i passi di danza e le linee melodiche impiegati alle origini, dal momento che solo il testo dei Diwan era scritto a parole, mentre il resto veniva insegnato oralmente, è affascinante pensare alle varie generazioni che se li sono tramandati lungo il corso dei secoli, ognuna mutandone un poco la forma a seconda dei tempi e dei contesti. Le versioni di Ofra, in questo, si calano appieno nel pensiero novecentesco, sintetizzate e abbreviate in forma canzone al punto da poter aggiungere la dicitura "pop" al genere musicale senza sminuirne assolutamente il valore né la rilevanza storica.
Se le porte dei ricchi sono chiuseIl messaggio della celebre "Im Nin' Alu", posta direttamente in apertura, non potrebbe essere più universale: un canto introdotto a cappella dalla sola Ofra, prima che la strumentazione inviti l'ascoltatore a entrare nel vivo dell'intero album, respirandone subito l'inedita atmosfera: mantelli di percussioni tradizionali e bassi sinuosi mescolati a sintetizzatori e drum machine, con l'ancheggiante tema melodico che si ripete e si rincorre, in botta e risposta tra la voce dell'interprete e le sezioni di archi e fiati. Un inizio imponente, che fa di "Yemenite Songs" una raccolta di Diwan composita e plurale, capace di raccontare vicende umane e questioni di fede, nonostante la condensazione in sole otto canzoni.
Le porte del paradiso rimangono aperte
29/10/2023